Pozzecco giocherà da bosino

L’altro ieri il Poz è venuto a trovarmi in negozio. Gli ho chiesto se li ha fatti sgobbare fisicamente, perché non c’è storia: vince sempre chi dà più gas. Lui ha detto di sì, mi fido. E ha aggiunto che invidia l’aplomb di Meo Sacchetti: si rende conto di vivere intensamente la partita, spera di trasmettere ai ragazzi solo l’entusiasmo e non anche la tensione.

Quello con Cantù è il vero derby: la rivalità con Milano è venuta dopo e pesa meno. Tra noi e i brianzoli si alzavano le bandiere, come i nostri papà e i nostri nonni. È sempre stata battaglia di campanile: non si affrontavano due squadre, bensì due comunità, due modi d’intendere lo sport e forse la vita. In campo c’erano ragazzi nati e cresciuti a Varese e a Cantù, mica stranieri che ci abitavano. Il «cata sü» è nato perché parlavamo dialetti simili: non aveva senso cantarlo ai bolognesi o ai veneziani, non l’avrebbero mai capito. E la gente tifava gli amici, mentre oggi tifa la maglia: il calore è lo stesso, cambia la destinazione.

Ho letto che il sindaco ricorda il derby vinto del ’68. Lo ricordo anch’io, eccome: ero appena tornato a Varese da Milano, la Ignis era giovane e rivoluzionata, nessuno ci dava credito. Dicevano che avremmo fatto fatica a salvarci. Esordiva Meneghin, che era grezzo, e fu meglio di quel centro americano che da più parti ci imputavano di non avere. Debuttammo proprio alla

palestra Parini, dove c’era un ambientino tutto particolare: come da noi ai pompieri, avevi la gente addosso, era difficile giocare e ancora di più vincere. Se passavi vicino alle linee laterali rischiavi di pigliare pacche, sgambetti, ombrellate: faceva parte del gioco. Colpi veri, da scansare, ma dati senza la cattiveria di oggi. Non ricordo, ai nostri tempi, un solo derby blindato dalla polizia.

Insomma, quella volta Cantù aveva lo scudetto cucito sul petto e pensava di asfaltarci. L’allenava Stankovic, un santone, ed era uno squadrone. Invece vincemmo noi, grazie alla preparazione del professor Messina: difendemmo in maniera spaventosa, nel basket offensivo di allora subimmo un canestro in meno invece di segnarne uno in più. E a fine stagione lo scudetto tornò a noi.

I duelli singoli, nei derby, diventavano faccende personali: marcavi il tuo alter ego, a volte il tuo esatto opposto. E chiunque fosse davi più di quel che avevi dentro, come se di fronte ci fosse un Belov, senza che nessuno dovesse tirartelo fuori. A me toccava Recalcati, più tardi Marzorati: avevamo grandissimo rispetto reciproco, sapevamo a memoria come giocava l’altro. Provocazioni tra di noi mai, dall’esterno sì: a volte gli segnavano l’assist anche se la passavano a compagni piazzati a dieci metri dal canestro.

Tutti, in questi giorni di vigilia, mi hanno chiesto come va a finire. Non ho ancora visto Varese, non nascondo che avrei voluto un roster più italiano, ma ho fiducia. Soprattutto in Pozzecco: da giocatore ci mise un po’ a convincermi, perché era anticonvenzionale. Non sarà normale neanche da allenatore, però secondo me ha capacità superiori al personaggio che è. Ed è più in gamba di tanti professorini che vedo in giro e pare abbiano inventato la pallacanestro.

Gianmarco vive il derby come un varesino, come lo vivemmo noi in quell’approccio a fari spenti del ’68: lotterà e chiederà alla squadra di lottare come noi, che a Varese c’eravamo nati. Si vince rischiando, il Poz saprà rischiare. Ha tutto da guadagnare, nessuno gli salterà addosso se stasera perde: comunque vada diamogli tempo, diventerà un buonissimo coach.

E io? Certo che vengo. Con Lino Dominici, il mio cardiologo. Ragazzi, fate in modo che anche lui si goda la partita.

Aldo Ossola

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