Dopo la pioggia di critiche è giusto favorire una momentanea chiusura degli ombrelli. Duole la mano, costretta a vergare giudizi tranchant un giorno sì e l’altro pure: la fede in un cambiamento, la fiducia in una rottura rispetto al recente passato e il raziocinio bussante del “siamo ancora all’inizio” suggeriscono alla vigilia dell’impegno casalingo con Pesaro un diverso tentativo
di lettura.Ecco allora quattro buoni motivi per non mancare domani al PalaWhirlpool, quattro speranze che possano riscaldare l’anima in attesa del parquet, quattro ragioni per soffocare in gola i fischi e dare un senso alla propria essenza seduta su un seggiolino da palasport. Sono tra le poche chances concesse dal momento: fuori il cielo è sempre a nuvole compatte.
Nel calderone delle cattive impressioni c’è finito anche lui, più per la sua compartecipazione a scelte di mercato, negative a parziale consuntivo, che per quello che è il suo compito precipuo: allenare.
Uno sguardo alla carriera invita alla fiducia: le sue squadre partono piano e finiscono in crescendo, fondamentalmente perché da lui imparano basket. Andate a vedere gli allenamenti: l’uomo sul “pino” biancorosso è un allenatore da palestra, uno che ferma gli esercizi per sottolineare anche un singolo movimento sbagliato, un pignolo che rompe le scatole per lasciare davvero qualcosa.
Attualmente si può dubitare del materiale tecnico che ha a disposizione, ma non della fermezza e della sapienza della sua mano. Quando ancora faceva caldo è stato annunciato come la “stella” della Varese 2015/16: un motivo ci sarà.
Quel primo quarto di Milano e l’impressione – purtroppo di breve durata – di essere capitati su un pianeta diverso rispetto a quello frequentato alla prima giornata si deve tanto a lui e alla sua bacchetta magica da croato di categoria superiore.Sono bastati un pick and roll eseguito in grazia di Dio, un taglio sottocanestro scovato e prontamente servito, la sensazione generale di avere finalmente una mano (il resto della squadra) attaccata a un
polso (il buon Roko Leni). Mancanza di fiato e desuetudine al campo hanno poi spento la luce.Contro Pesaro avrà una settimana in più di gambe, nonché di conoscenza dei giochi e dei compagni: non potrà da solo fare pentole e coperchi, ma è manna dal cielo. Lo si usi come un fattore nerboruto che aiuta a mettere la quantità più ingente possibile di fieno in cascina. Prima dell’inverno e prima che lui stesso cambi fattoria.
Perderne un’altra non sarebbe certo la fine, ma darebbe un’ulteriore dose di linfa alle preoccupazioni e un terzo schiaffo ben assestato al morale. Di tutti: di chi gioca, di chi siede sugli scranni, di chi tifa.
Già adesso certi sogni da prime otto paiono – più per quello che si è visto che per quello che (non) si è conquistato – fumosi e difficilmente coltivabili. Il modesto suggerimento è allora quello di un esame di realtà. Chi comanda a Pesaro lo dice da anni e non perde affezione: pensiamo alla salvezza. E alla lista si è recentemente aggiunta anche Cantù, con il ds Della Fiori: «Perché vergognarsi di un obiettivo del genere?». Già, perché farlo? Non lo facciano i tifosi e diano con entusiasmo l’apporto delle loro ugole: sono ancora in tempo e non c’è pericolo che gli cresca il naso.
Più per poesia che per prosa, ma la gara che sta per passare sugli schermi locali è una delle ultime che ancora danno un senso alla storia italiana di questo sport.
Varese-Pesaro è un patrimonio comune, è – tra tanto altro – un piede malandrino e un ginocchio sacrificato agli dei. È, in ultima sintesi, una partita da vincere.