«Quella sera meravigliosa ci fece sentire invincibili»

Il Poz ricorda l’incredibile vittoria nella sfida dell’anno scorso: «Nessuno mi toglierà mai quel ricordo. E oggi la vinciamo noi»

La nostra vigilia del derby è un viaggio alla ricerca della felicità. E allora suoniamo al campanello del Poz, per due semplici ragioni: un po’ perché Gianmarco ha un folletto nell’anima che ama cibarsi di questo sentimento; e un po’ perché ricordare Varese-Cantù del 12 ottobre 2014 significa davvero rispettare il comandamento di cui sopra.

Tutto. Quello che è successo contro Cantù è stato una sorta di disegno divino. E nonostante gli accadimenti successivi penso che quella sia stata una bella pagina per lo sport in generale.

Premessa: noi circensi viviamo di emozioni e io faccio parte a pieno titolo di questa categoria. Ho iniziato a giocare tardi da professionista e ho sempre cercato di conservare l’aspetto sentimentale di quello che facevo: vincere è bello ma solo perché attraverso la vittoria riesci a provare determinate emozioni. Da allenatore nulla è cambiato, anzi: per un coach che vive la sofferenza come me, certe sensazioni sono le uniche in grado di ripagare lo spirito. Cantù, alla vigilia, dava motivazioni particolari (la mia prima partita ufficiale a Varese, il ricordo sempre accesso di Chicco Ravaglia) ma anche sofferenza.

Abbiamo vinto perché tutti coloro che sono scesi in campo hanno condiviso un’emozione. Io gli sono ancora grato, come sono grato alla gente che era sugli spalti e che ha contribuito a farci vivere una giornata incredibile: ce l’abbiamo fatta per e grazie a loro. È innegabile che poi le cose non siano andate come si sperava e forse aver battuto Cantù ha anche alzato troppo l’asticella delle nostre ambizioni. Ma nessuno mi toglierà mai quel ricordo e lo toglierà a chi lo ha vissuto. Perché non ero solo in quel momento: ero un tutt’uno con chi mi circondava.

Ogni persona che lavorava con me o intorno a me si era clamorosamente unita per cercare la vittoria. Eravamo tutti dalla stessa parte, concentrati su un solo obbiettivo: io, i giocatori, il mio staff, Cecco Vescovi, Max Ferraiuolo, la società. È difficile remare dalla stessa parte – e infatti dopo non ci siamo riusciti – ma in quei giorni avevo la sensazione che stesse accadendo. È per questo che alla sirena finale non ho potuto trattenermi e ho gioito in quel modo: è stata felicità allo stato puro, quella che nasce dalla condivisione, quella che sai che tu provi per l’altro e l’altro prova per te. E’ stata, anche per questo, la sublimazione dello sport.

Prima di scendere in campo ero bloccato dalla tensione. Mai in vita mia mi era successo in modo così eclatante: non per le Olimpiadi, non per la finale scudetto, non per qualsiasi match abbia mai giocato. Perché è vero che sognavo di vincere, ma me la facevo addosso anche al pensiero di perdere. Non riuscivo a entrare nello spogliatoio e allora chiamai Bulgheroni: Toto, vieni qui, se no non entro.

La notte totalmente insonne: alle 8 del mattino ero ancora nel letto a rigirarmi. Idillio, orgasmo, estasi: non mi vengono in mente parole diverse. Mi alzai e andai all’Esselunga a prendere i giornali e a capire cosa dicesse la gente.

Mi sento un po’ colpevole.

Spero che vi sia la stessa comunanza d’intenti che ha mosso noi. La Cantù attuale, anche se stimo Bazarevich e so che diventerà un grande allenatore, non mi piace: sono arrivati i soldi di Gerasimenko ed è successo un terremoto. In questo momento mi sento ancora più tifoso della mia Varese. Vinciamo noi.