«Quella telefonata ha cambiato la vita mia e di mio figlio»

Il chirurgo Alberto Reggiori racconta in un libro drammi, dolori e rinascita dopo un incidente: «Sono un medico ma ho scelto di affidarmi a Dio»

L’esperienza di una famiglia messa alla prova e di un padre che riscopre un figlio, dopo la telefonata che tutti i genitori temono. È il racconto di “Fatti vivo” il libro scritto da , chirurgo varesino, che dal 1985 per circa dieci anni ha lavorato in diversi ospedali dell’Uganda, dove ha vissuto con la moglie e dove sono nati tre dei loro sette figli. «L’idea di scrivere questo libro è nata dall’aver vissuto questa inaspettata esperienza di Giulio che, dopo un’uscita di strada in auto, è rimasto in coma per due mesi e ricoverato per nove, subendo sei interventi – e di tutta la vicenda seguita».

Un’esigenza liberatoria? «Può darsi, non lo so. Ho raccolto i pensieri al termine di una vicenda drammatica finita sostanzialmente bene, anche se non si è ripreso al cento per cento». Le pagine iniziano ricordando proprio il maggio del 2007, quando nel mezzo della notte squilla il telefono e arriva la notizia che stravolge il routinario corso dei giorni. «Giulio era gravissimo. Alla corsa all’ospedale sono seguiti l’apprensione di non sapere se ce l’avrebbe fatta, l’andamento degli interventi, la rianimazione e il contatto coi medici». Nonostante la laurea in medicina in quella situazione Alberto era solo un papà. «Per me è stato importante quando, invece di guardare in maniera stressata gli esami, ho deciso di affidarmi a Dio. “Se lui lo ha messo al mondo e gli ha voluto bene” mi dicevo “ci penserà”. Capire che eravamo nelle mani di qualcuno è stato decisivo».

Nel testo a questo punto arriva il flashback che ritrae Giulio ragazzino.«Erano i nostri anni in Uganda, lui è nato lì. Poi gli anni dell’adolescenza e dell’irrequietezza che l’accompagnava. Non aveva voglia di andare a scuola, perciò si era messo a lavorare come cameriere. Quello che faceva non gli dava soddisfazione. Da genitori eravamo preoccupati. Ricordo che un giorno, a Roma, ho chiesto sulla tomba di Giovanni Paolo II che Giulio incontrasse la verità lungo la sua strada».

Dopo la telefonata, «non ho potuto fare a meno di pensare, non so se è giusto dirlo, che fosse in parte legato a quella richiesta. In maniera del tutto inaspettata oggi, a 26 anni, Giulio, seppur con problemi fisici, zoppica e fa fatica a parlare, è più gioioso, contento, sereno aperto e generoso che mai». Nel lento ritorno all’esistenza, hanno avuto un ruolo fondamentale parenti e amici. «Ci sono stati molto vicini, continuando ad andare a trovarlo senza desistere nei lunghi mesi e negli anni successivi». Un avvenimento così dirompente mette di certo dura prova tutta la famiglia. «Questi anni sono stati condizionati da questa cosa, per fortuna in positivo. Tutti si sono messi un po’ a servizio e hanno cercato di confrontarsi con quanto successo, di viverlo e di capirlo». «Da parte di Giulio c’è un sentimento di grandissima riconoscenza per tutto. C’è la coscienza, anche se espressa fino a un certo punto, di quel che è stato e soprattutto di tutto l’affetto e dedizione in particolare della mamma che si è spesa tantissimo fino a tempi recenti portandolo avanti e indietro da Milano per le particolari terapie di cui ha bisogno. Per i fratelli è stato un periodo particolare, faticoso a volte, ma anche di grande crescita e affezione».

Nella conclusione Alberto cita una vicenda biblica, per ricondurre alla speranza che non li ha abbandonati. «Ho ripreso la vicenda di Giacobbe che incontra e lotta con un angelo, senza sapere che sia Dio. L’incontro delle persone con il Mistero può essere doloroso e lascia segni indelebili, ma cambia la vita. È un paragone che mi sono azzardato a fare, con le dovute differenze, ma penso sia valido per tutte le persone».