«Sacrifici, fatica e tante rinunce. Mi ripaga il profumo del pane»

«Mio nonno decise di aprire in questo punto della città negli anni ’30, perché qui c’era il mercato delle bestie»

Dagli anni 30 a oggi qualità e tradizione hanno casa in piazza della Motta, dove una delle botteghe storiche di Varese continua a produrre prodotti da forno «come si faceva una volta». Da tre generazioni la panetteria Pigionatti prepara il pane per i varesini, con attenzione e cura verso un bene che ha attraversato la storia e che continua a essere uno degli alimenti principali sulle nostre tavole. I tempi cambiano, le certezze restano. E

la panetteria di piazza della Motta è uno dei punti fermi del centro di una città che si trasforma ma che non abbandona le sue origini e peculiarità. Oggi, nel solco del nonno Antonio e grazie agli insegnamenti di papà Ernesto, è Davide Pigionatti a portare avanti l’attività di famiglia. E a raccontarci la storia e i segreti di un lavoro che «condiziona l’esistenza ma, se fatto con passione, sa darti grandi soddisfazioni».

Mio nonno, Antonio Giorgetti, lavorava con altre due persone, Vercellini e Chiavenna, nella cooperativa di Biumo: a un certo punto, nei primi anni ’30, hanno deciso di dividersi in tre posti diversi della città. Il nonno (che nel dopoguerra fondò a Roma l’associazione nazionale dei panificatori) scelse di venire alla Motta perché c’era il mercato delle bestie: tante persone venivano per il mercato e quindi c’era possibilità di vendere. Il negozio, il magazzino e il laboratorio sono sempre stati qui; solo nel tempo si sono un po’ allargati. L’attività è passata dal nonno ai miei genitori, Marcellina Giorgetti e Ernesto Pigionatti, e poi a me: siamo cinque fratelli, tutti sappiamo fare il pane ma solo io ho seguito questa strada. Quest’anno compirò 50 anni e lavoro qui da quando ne ho 18: ho imparato tutto da papà, il mio maestro.

È una scelta di vita: si lavora di notte e si dorme di giorno. Condiziona molto l’esistenza. Io ho potuto farlo perché mia moglie Patrizia ha deciso di venire a lavorare qui con me. È un lavoro bello ma di sacrificio, che costringe a certi orari tutta la famiglia: per esempio i miei bimbi il pomeriggio, sapendo che io dormo, cercano di non fare troppo rumore. Già nella tarda serata comincio a impastare, per dare una lievitazione lenta e un

riposo lungo, proprio come si faceva una volta: l’unico strumento che uso, e non per tutti i tipi di pane, è l’impastatrice; per il resto è tutto fatto a mano. All’una e mezza si comincia a infornare i primi stampi, mentre si procede con gli altri impasti che man mano saranno lavorati. Il pane deve fare minimo 2 o 3 lievitazioni e poi deve riposare in forno: lo facciamo in 3 e ogni giorno ne produciamo circa 2 quintali.

No, è considerato molto faticoso e quindi poco ricercato. Ma è un peccato, perché è una ricchezza che così rischiamo di perdere.

Sono cambiate le quantità e le qualità. Un tempo si facevano 4/5 tipi di pane: la michetta, che oggi va poco perché va mangiata in giornata, il francese, l’integrale, il pane all’olio o comunque condito, il pane ai cereali. E se ne produceva molto, perché se ne mangiava tanto: un tempo era il pasto, oggi lo accompagna. Mio papà diceva sempre che gli operai compravano un chilo e mezzo di pane e 50 grammi di mortadella.

Oggi è l’inverso: si fanno molti più tipi di pane, ma in minori quantità, anche perché nel tempo il pane è stato un po’ criminalizzato dalle diete, nonostante non sia del tutto vero che sia solo il pane a far ingrassare. È nata poi molta più richiesta di pani con proprietà nutritive diverse, più facili da digerire. Un tempo si usavano soprattutto le farine raffinate: il pane di lusso era il più bianco possibile. Oggi invece funzionano quelli meno lavorati ed elaborati possibile.

Un tempo c’era il divieto di interrompere il processo: il pane andava prodotto e cotto nello stesso posto. Ora le produzioni si fanno anche spezzate: pane preparato, poi congelato e cotto o finito di cuocere in un secondo momento. Per capirci, un po’ come avviene per i cibi surgelati. La produzione industriale ha ovviamente sbaragliato il mercato, perché ha una potenza di produzione anche di 6-7 volte superiore con lo stesso numero di persone. In più ormai il pane lo vendono ovunque. Noi non abbiamo mai accettato compromessi. Siamo artigiani e i nostri clienti di fatto sono intenditori, vogliono un prodotto e vengono qui a prenderlo.

Il “pan tranvai”: è il pane con l’uva sultanina, che si prendeva, appunto, prima di andare a prendere il tram. Lo facciamo tutt’ora, tutto a mano, compreso l’impasto.

La riconosci la differenza tra una tortina artigianale e una confezionata, vero? Il segreto è la qualità. Ogni tipo di pane ha un suo gusto, un suo aroma, quello della lavorazione artigianale, che un po’ si sta perdendo. Il pane è materia viva, respira l’aria. Quando fa caldo soffre: lievita prima e assorbe l’umidità. Quando c’è vento secca più facilmente. In inverno si usa acqua più calda, in estate più fredda. Vanno tenuti presenti molti fattori per decidere la cottura. Noi curiamo ogni singolo panino che prepariamo. Ci vuole passione, impegno e molto sacrificio. Se tornassi indietro lo farei ancora: questo lavoro chiede molto, ma restituisce altrettante soddisfazioni.