«Se chiudo gli occhi rivedo la Stella…»

Il cantore - La voce di Franco Ferraro raccontò i Roosters tricolori: «Ora è difficile provare quei brividi»

«La Stella è stato un qualcosa che abbiamo condiviso tutti. Tutta Varese, a partire dalla gente comune. Eravamo tutti lì, tutti insieme. Eravamo Varese contro tutti». In questa intervista, se potete, non badate alle ripetizioni, né alla forma, né alla linearità, né all’abuso di retorica. Non badate nemmeno al fatto che l’interpellato sia il caporedattore di una delle testate giornalistiche più autorevoli d’Italia. Quello di oggi è uno sfogo di gioia, d’amore, di commozione eterna. Franco Ferraro, oggi, 11 maggio, giorno dell’intervista, ritorna a essere solo ed esclusivamente il cantore della favola più bella degli ultimi 20 anni. Una roba «che non si può spiegare…». Noi ci proviamo, a modo nostro.


Sì, con un magone enorme. Come quello provato quando un po’ di tempo fa l’amico fotografo Marco Guariglia mi ha mandato un’immagine della premiazione in Comune, dopo lo Scudetto. Nella foto ci siamo io, il Poz e le ferite di una stagione intera.


Beh, il Poz lo conosciamo bene: coraggioso, spaccone, guascone, infermabile (se non, a volte, da Meneghin e De Pol). Uno che andava ad affrontare senza paura avversari che gli davano almeno 20 centimetri. Fu un mostro durante l’intera stagione, non solo nelle finali: se chiudo gli occhi rivedo partite indimenticabili…

Ti racconto un aneddoto. Io fui l’unico giornalista ammesso negli spogliatoi durante i festeggiamenti, conseguenza di un rapporto bellissimo con tutti. Un amico, più che un cronista. A un certo punto mi sia avvicina De Pol e mi dice: «Franco, grazie. Ora, però, vorrei parlare da solo con la squadra». Volevano un momento di intimità, solo loro. Volevano dirsi: «Questa roba qui è nostra». Il gruppo: non penso che possa più ripetersi un’alchimia perfetta come quella.


Fu uno sfogo. Lo sfogo di uno che aveva vissuto tutta l’incertezza, tutta la malignità di chi – da un momento all’altro – si aspettava che quella squadra cadesse e interrompesse la sua striscia. La stampa nazionale, alcuni tifosi, anche alcuni varesini: «Prima o poi la festa finirà…». No: quei Roosters, oltre ad essere degli ottimi giocatori, avevano una forza psicologica incredibile.


Dalla stagione mostruosa. Quell’anno seguì tutte le trasferte e lo posso sostenere: non si fermarono mai. Giocavano alla morte anche sui campi minori, tiravano dritti come se niente fosse, senza condizionamento alcuno. Esattamente il contrario di quello che succede oggi.

Quello che vedo oggi, non solo a Varese, è tutto il contrario di quanto abbiamo appena detto. Il massimo che è dato di ammirare sono solo sfumature di gruppi, in realtà singoli che vanno per i fatti loro e portano l’acqua solo al loro mulino. Quella Pallacanestro Varese era diversa: anche la prestazione monstre di un Pozzecco era funzionale alla squadra e faceva star bene i compagni, che l’accettavano con il sorriso sulle labbra.


No. Ogni tanto qualche brivido lo provo ancora quando vedo Steph Curry e i Golden State Warriors e mi chiedo come commenterei certe cose. Ai tempi fare la telecronaca di quella Varese significava raccontare ogni domenica il capitolo di una storia, aggiungendo sempre qualcosa in più a beneficio degli spettatori che vivevano le mie stesse sensazioni. Il basket, d’altronde, è la passione della mia vita.

Con mio fratello al palazzetto nel momento in cui Varese stava provando un giocatore nuovo, un certo Bob Morse. Ci avvicinammo timidamente al grande Aldo Giordani, lì presente: «Com’è questo qui?». «Mah, mi sembra un po’ lento per il campionato italiano». Non ci vide giustissimo quella volta…».

Lo striscione che mi regalarono i Boys Varese, con scritto: “Franco Ferraro The Best”. Rende onore a uno che in quelle telecronache non si presentava come un professionista controllato, ma capiva che doveva lasciare una parte di se stesso…

Ti cito Lev Trotsky: La massa è assai paziente, ma non è fatta per niente di un’argilla plasmabile a piacere. Alla gente di Varese basterebbe un minimo per appassionarsi, ma gli devi far battere il cuore. La società dovrebbe mandare dei segnali, costruendo una squadra ambiziosa, che diverta anche se perda: spero che il buon finale di stagione serva da viatico per il futuro. E poi, lasciamelo dire, quanto mi piacerebbe rivedere un Toto Bulgheroni alla guida…».