Se n’è andato Fausto Pozzi. Era il papà del Bosto Calcio

Aveva fondato la storica società dalla quale sono passati tutti i calciatori varesini. Aveva 84 anni

Un grave lutto ha colpito il calcio varesino: si è spento a ottantaquattro anni, malato da qualche tempo, Fausto Pozzi, il fondatore del Bosto Calcio, da sempre considerata la nostra fucina di eroi a livello provinciale e anche di più. Perché quest’uomo rigoroso, tutto d’un pezzo, lungimirante e sognatore, aveva sfidato il mondo pur di realizzare quel gioiello che è il campo sportivo di Capolago a partire

dalla metà degli anni Settanta. «Facevamo capannello al Bar Firenze di Piazza della Repubblica» racconta commosso Osvaldo Tonelli. «Partivamo da lì per le varie palestre cittadine che ci ospitavano negli anni che al Fausto era venuto in mente di costruire. Quando si metteva in testa un’idea, doveva realizzarla a tutti i costi: e così fece, e nel ’79 avevamo il nostro nuovo centro sportivo».

Per Osvaldo, come per tanti altri che gravitavano attorno al Bosto dalle origini, Pozzi era un mito vivente. «Era arrivato al Bosto tramite il fratello Paolo, che aveva creato la squadra di calcio e anche quella di basket dal niente, all’oratorio, nel ’64. Nel settembre del ’69 avevamo formalizzato l’iscrizione alla Fgci in terza categoria». E da un’idea di Fausto in quegli anni il Bosto diventa la prima società Nagc, Nucleo Addestramento Giovani Calciatori, con l’obiettivo di fornire linfa al Varese Calcio, di cui era supertifoso al pari della Juve, alla quale guardava come modello superiore.

C’erano più opzioni per costruire il centro, ma Fausto volle fortemente Capolago, che negli anni Ottanta parte con quattro spogliatoi e tre campi in terra battuta, grazie anche alla collaborazione dei genitori: si era buttato nell’impresa in ogni possibile momento libero, lui che di mestiere era un tecnico del telefoni alla Sip, abituato, insomma, a fare rete. E a quel Bosto che aveva creato ex novo, e a quei giovani che avevano tanto desiderio di trovare

nel calcio la loro dimensione, negli anni in cui per tanti giocare a calcio significava ancora spendersi per una causa non solamente atletica ma soprattutto morale, aveva dedicato veramente l’anima: non a caso il 2 di maggio Osvaldo in persona, la memoria storica della sua squadra, gli aveva consegnato assieme al “Caccia” – cresciuto anche lui nelle file del Bosto – l’onorificenza più ambita del Coni provinciale, il premio intitolato alla memoria di Enrico Ravasi.

Un uomo tenace e caparbio, che aveva sfornato molti giocatori di altissimo livello. Come i tre fratelli Pellegrini, ad esempio. «E’ una notizia che mi mette i brividi – racconta Stefano – perché per noi è stato un punto di riferimento fondamentale, e non solo perché abbiamo avuto una carriera professionistica, io e Luca nella Sampdoria, Davide nella Fiorentina. Aveva saputo creare una scuola di vita, prima di tutto, e di calcio poi, perché quando si entrava in quella struttura il carattere riceveva l’impronta delle sue regole». Anche Bruno Limido, classe 61, il centrocampista juventino vincitore della Coppa dei Campioni nell’85, è affranto. «Con lui se ne va un pezzo di storia del calcio. Quando ci si allenava a Giubiano, io abitavo a cinquanta metri dal campo: mi convinse, quest’uomo burbero, a giocare, e mi fece tornare al pallone quando per qualche tempo avevo smesso, da ragazzino: non me lo dimenticherò mai e sono contento di avergli regalato quella Juve a cui teneva tanto». Commosso e nel contempo scanzonato il ricordo di Piero Galparoli, cresciuto nelle file dell’US Bosto alla metà degli anni Settanta: «E’ stato un innovatore del calcio varesino assieme a Giovanni Borghi: non lo dimenticherò mai, come i bei tempi in cui il campo era in costruzione e dovevamo cambiarci sul pullman e fare la doccia dalla vicina». Un uomo che ha temperato generazioni e la cui tempra sarà difficile da dimenticare.