Il “re della scintilla” se n’è andato in un attimo, come voleva quel soprannome che un giorno gli aveva dato un addetto al controllo del team Moto Guzzi, a margine di uno dei tanti circuiti su cui si è dipanata la sua esistenza professionale. In vita la rapida magia che trasformava il silenzio in rumore, la quiete in una tempesta di cilindri, l’accensione in una vittoria al traguardo era stata il suo tocco proverbiale, capace di lasciare il segno nella storia dei motori. In morte, la stessa rapidità regala oggi un senso di improvviso vuoto in chi gli ha voluto bene, nonostante il consuntivo di 86 anni vissuti pienamente e senza rimpianti.
Lunedì sera si è spento Carmelo Ereddia, mito degli anni ruggenti della storia motoristica italiana e mondiale: è stato lui il segreto del successo di campioni del calibro di Giacomo Agostini, Renzo Pasolini e Walter Villa. Lui e quella dote innata nell’accensione dei motori, esportata per anni presso le principali case costruttrici che hanno reso leggenda le due ruote. Era un figlio adottivo di Varese (viveva a Barasso), provincia in cui si era stabilito dopo aver lasciato la natale Ragusa e aver trascorso un periodo in Libia a seguito del padre scultore. E bisogna partire proprio dalla città siciliana per spolverare la sua lucentezza: nell’estate 2015 Ereddia aveva ricevuto il premio per essere uno dei ragusani più famosi al mondo, consegnatogli davanti a una platea di 10 mila persone e con tutti gli onori del caso.
La sua carriera iniziò negli anni ’50, alla Dansi, la storica fabbrica varesina che per decenni ha dominato il mercato. Venne assunto con la mansione di responsabile del reparto di riavvolgimento bobine esterne, ma presto passò al reparto accensioni, preparando sia quelle per le moto di serie, sia quelle per le moto da corsa, con un approdo naturale al mondo delle gare. Tanti i marchi serviti, almeno quanti i clienti che l’azienda varesina aveva in dote: Mv Agusta, Aermacchi, Benelli, Harley Davison, Moto Guzzi, Minarelli e Moto Morini. Si concentrò sulla tre cilindri di un certo Giacomo Agostini, contribuendo in modo indelebile alla vittoria
dei 15 titoli mondiali del motociclista bresciano. Ma “Mino” è stato solo uno di una lunghissima sfilza di piloti seguiti e omaggiati dalla sua professionalità, che ha fine corsa gli ha regalato l’incredibile bottino di 68 mondiali vinti. Dalla Dansi, dopo 35 stagioni, passò alla Pagani, all’apice di un corteggiamento durato anni: era il miglior tecnico su piazza. Per la sigla milanese lavorò un altro lustro, prima di una meritata pensione che in realtà non è stata mai consumata fino al 2010: fu infatti la Ducati a chiamarlo a sé, come responsabile di laboratorio e assistenza tecnica per Italia, Europa e resto del mondo.
Ieri lo ha voluto ricordare anche Enrico Minazzi, giornalista per tanto tempo responsabile degli sport motoristici nella redazione della Gazzetta dello Sport e grande amico di Ereddia: «Se ne va una persona perbene, semplice e disponibile. Un uomo innamorato del suo lavoro, quello di vero artigiano delle moto, figura che oggi – nell’era della tecnologia – non esiste più. Ha fatto la storia del motociclismo da dietro le quinte, ricevendo forse meno fama di quella che avrebbe meritato. La verità, però, era una sola: se non c’era la sua scintilla, le moto non partivano».Minazzi ha il cuore colmo di aneddoti, gli stessi che Ereddia ha sempre elargito a piene mani: «Mi raccontava spesso di quando la Dansi lo aveva mandato a seguire il Giro d’Italia in moto. Era partito da Varese con la sua tuta color celeste e con una pesante valigia piena degli strumenti del mestiere, senza avere a disposizione una macchina per passare da una tappa all’altra ma con la consegna di viaggiare in treno. Fece così finché i fratelli Fossati non si offrirono di accompagnarlo con la loro Fiat 1400 “cassonata”: il suo Giro d’Italia, allora, diventò un giro fatto su un cassone, attaccandosi alle sponde». Inevitabile parlare di Agostini: «Si ricordava dei titoli vinti, ma anche dell’unico che gli aveva fatto perdere, in Giappone. Ma non c’era solo “Ago” nella sua mente: gli era piaciuto molto anche Haywood, o Cecile Sandford».Nel gotha personale ci fu anche il rapporto con Ayrton Senna. Il brasiliano correva ancora coi kart ed era arrivato a Varese al seguito del suo tecnico Diego Mombelli. Il mezzo con cui gareggiava Ayrton aveva un problema di resa e Mombelli pensò di metterlo sotto le sapienti mani di Ereddia per dargli una migliorata. Detto, fatto: «Creai una centralina speciale che permetteva al motore di avere un anticipo sui 25 gradi, invece dei 2 di quelli tradizionali. A ogni curva Senna iniziò a dare 5 o 6 metri a tutti» raccontò a “La Provincia” qualche mese fa in un’intervista.
Ereddia negli ultimi anni si era innamorato anche del basket. La ragione fu solo una e aveva le sembianze di Matteo Jemoli, l’adorato nipote che Carmelo ha sempre portato in un palmo di mano. Il giovane Matteo, uno dei “cervelli in fuga” della nostra pallacanestro (oggi è a Trapani in Lega 2), è stato l’assistente a Varese di tanti mostri sacri della panchina, da Recalcati, a Vitucci, a Caja, trascinando il nonno in una sorta di passione generata dall’amore. In questa veste lo ricorda Nestore Crespi, storico gm del basket italiano (ora lo è dell’Hs Cimberio Varese) e tifoso sempre presente al Palawhirlpool: «L’ho conosciuto troppo tardi e so di essermi perso qualcosa, anche se sono orgoglioso del fatto che Carmelo mi abbia onorato della sua amicizia. È stato una persona eccezionale, innamorata del suo lavoro e delle storie che ha collezionato grazie a esso. Si dice sempre bene di chi se ne va: io mi limito ad affermare che Ereddia era un uomo vero. Un uomo straordinariamente legato a suo nipote, che – non per caso – ha ereditato tante delle sue qualità».