«Senna era samba Dopo Imola non ballammo più»

Da vent’anni siamo i Senzasenna. E il grande Gianni Mura, padre di quelli della nostra generazione che scrivono di sport, ci perdonerà se oggi gli freghiamo il neologismo che aveva coniato per ricordare la morte di Brera. Siamo i Senzasenna da vent’anni: orfani di un pilota che è stato molto più di un pilota, di un uomo che ha fatto ridere e piangere il mondo. Vent’anni son passati: vent’anni giusti da quel giorno ingiusto, quando la sua Williams si schiantò sul muretto del Tamburello, e tutti imparammo che anche gli dei possono morire.

È impossibile fermare su una pagina le parole giuste per dire chi era Ayrton Senna: per noi, per la Formula 1, per il Brasile. Perché Senna è stato troppo tutto: Senna non si può raccontare, si può solo ricordare. Noi ci teniamo nel cuore un’immagine e nel portafoglio un autografo spiegazzato: e questo è il nostro ricordo di Ayrton.

Il 9 ottobre 1990 era un martedì sera, e chi scrive compiva 14 anni. Macché festa con gli amici: c’era la partita della Pallacanestro Varese, ed era un obbligo andare al palazzetto. Anche se quella partita era inutile: gara di ritorno della Coppa Italia contro la Benetton Treviso di Del Negro, che all’andata aveva vinto di 40 punti. Valeva la differenza canestri, quindi andare al palazzetto quella sera era roba da pochi affezionati. Infatti ci saranno state mille persone, mica di più, per una partita che poi fu pure bella e si chiuse con un inedito pareggio (87-87).

A metà del primo tempo, di fianco al canestro sotto la Curva Sud prese posto una stangona di quelle mai viste. La partita non contava nulla, e tutti si misero a guardare lei: «Ragazzi, ma quella lì è Carol Alt». Scompiglio in curva, mentre l’attenzione di chi scrive e dell’amico Andrea Cason veniva rapita da quel tizio – piccoletto e col cappellino calato sul viso – che stava seduto di fianco a lei. Perché se quella era Carol Alt, il suo accompagnatore non poteva essere che Ayrton Senna (sì: Senna stava con la donna più bella del mondo perché quando uno è il migliore lo è in tutto).

Scavalcare la balaustra e fiondarsi da lui fu un attimo (oggi avremmo preso il Daspo), così come fu normale ignorare Carol Alt e farsi fare l’autografo da Senna. Eravamo giovani e stupidi: meravigliosamente stupidi. Questo è il nostro ricordo di Ayrton: di quella volta che venne a Masnago per vedere Varese, e ad accorgersene furono in pochi.

Il bello di Senna, però, è anche un altro: ognuno ha il suo ricordo, ognuno ha il suo attimo. Il suo “cosa stavo facendo quando Senna è morto”, un po’ come poi è successo per l’11 settembre.

Marco Caccianiga, brasiliano nato per sbaglio a Varese, per esempio: lui che sfreccia sulla sua moto con il casco con la bandiera del Brasile, uguale a quello che usava Ayrton. Lui potrebbe dircene di cose, su Senna. «Era un brasiliano atipico – racconta – timido e riservato e mai sopra le righe tanto da sembrare un europeo. Lui era brasiliano quando indossava il casco: in pista era ritmo, era Samba, era Bossanova, era Brasile. Lui erano le urla di gioia registrate dalla cameracar dopo la vittoria a Interlagos nel 1991, pietra miliare dello sport mondiale e della mia vita. Tanto che in onore di quella vittoria ho chiamato mio figlio, nato nel 1991, Alessandro Ayrton».

E poi c’è quel momento: il Tamburello, la Williams fracassata. «La prima reazione fu sportiva: maledizione, la gara è andata. Poi, un attimo dopo, il gelo nel vedere Senna che reclinava la testa, lentamente. E poi l’elicottero, i soccorsi coperti da un lenzuolo bianco. Quella sensazione che da un momento all’altro qualcuno saltasse fuori a dirci: è tutto a posto, Ayrton sta bene, il mondo può riprendere a sognare».

Quattro volte iridato

E poi c’è Senna per i brasiliani, e noi questa cosa qui mica ce la facciamo a spiegarla. La chiediamo a Neto, idolo del Varese, cresciuto col mito di Ayrton. «Lui era il Brasile, lui è il Brasile. Quegli anni per il mio Paese erano difficili, la gente faceva fatica: Senna ci ha permesso di restare in vita, ci ha dato motivo per sorridere e ballare, per essere orgogliosi di quella bandiera portata in giro nel mondo sul suo casco».

E poi, il giorno in cui Ayrton è morto, il Brasile ha perso la gioia di vivere: «Tutto il Paese si svegliava all’alba per vedere i gran premi: sempre, era una cosa naturale, nemmeno ci chiedevamo se fosse il caso di farlo o meno. Se c’era Senna, si puntava la sveglia. Avevo 15 anni, quel giorno, ed ero davanti alla tv: le lacrime iniziarono a venir fuori qualche ora dopo l’annuncio ufficiale della morte. Quando tutti ci rendemmo conto che Ayrton non era immortale come pensavamo, quando tutti capimmo che era arrivato il momento di smettere di ballare».

E noi chiudiamo con l’altra immagine: quella dei calciatori del Brasile che qualche mese dopo la morte di Senna giocarono e vinsero i mondiali contro l’Italia. E srotolarono quello striscione: «Acceleriamo insieme – racconta Caccianiga – il quarto mondiale è nostro. Ayrton si era fermato al terzo, tutto il Brasile ha voluto vincere il quarto. Con lui, per lui».

Francesco Caielli

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