Siam venuti fin qui per vedere giocare Azzolin, anzi Razzolin per come macina sulla fascia. E, macinando così, arriverà là dove sono arrivati tutti i terzini che l’hanno preceduto (quelle fasce portano bene, e se sei nato a Varese benissimo). Qualcuno l’anno scorso al mercato gli aveva messo davanti De Vito e Jebbour, un’eresia e un attentato alla varesinità: se ci ripensiamo, firmiamo per essere ripartiti dall’Eccellenza con lui e con questi ragazzi invece di continuare ad agonizzare con figurine comprate, cedute e scambiate solo perché qualcuno pagava per fartele avere, o perché la società era in mano a procuratori inseriti nei giri sbagliati. Adesso invece i giocatori baciano la maglia anche se nessuno ordina loro di farlo, anche se per una volta non ci sono gli ultrà (lavorano e sono persone normali), la baciano e la ribaciano persino prima di entrare in questo campetto d’un paese di seimila anime – ma tra quelle seimila c’è Roberto Donadoni – mentre lo speaker li chiama «negli spogliatoi per l’appello», oppure annuncia che «manca una pettorina gialla all’ingresso del campo». Prendete il gol decisivo arrivato quasi alla fine del più bel secondo tempo di questi primi due mesi (almeno cinque occasioni, due fallite a porta vuota, ma soprattutto istinto vincente, fame, corsa e voglia): Simonetto sfonda a destra, la mette per Piccinotti che tira, Becchio segna sulla respinta. Qui c’è tutto il Varese, tutto Melosi – che coraggio a togliere anche gli ultimi due big, Giovio e Gheller, con Marrazzo, Gazo e Pià sempre infortunati – e tutti noi: a Simonetto ieri avevano fatto girare la testa, Piccinotti con quel transfer che non arrivava mai sembrava un transfuga o un ufo, Becchio domenica era stato il peggiore in campo. Eppure tutti e tre ci hanno creduto, tutti e tre ci hanno provato, tutti e tre hanno compiuto l’impresa più bella d’inizio stagione: hanno trascinato il Varese a undici partite dalla promozione (chi vince la coppa nazionale sale in serie D). Grandi ragazzi, perché grandi dentro. I ragazzi della Cisanese
a fine partita si ritrovano al bar del campo e uno di loro ci offre una birra mentre scriviamo al computer queste righe: «Pensavamo che veniste ad asfaltarci, poi voi – bon – avete sbagliato tre gol nella ripresa, ma adesso possiamo dire di avere giocato con il Varese». Fuma una sigaretta, che aveva acceso uscendo dagli spogliatoi, ed è seduto con i suoi compagni a mangiare un panino con la salamella: «Poi ci fate vedere cosa avete scritto di noi, ma prima brindiamo a questa giornata storica». Se volete alzare i calici con noi dovete urlare Forza Varese. Detto, fatto. A Cisano tifano Varese: «Avete avuto coraggio a ripartire dall’Eccellenza, e quei 150 tifosi arrivati fin qui valgono i cinquantamila di San Siro». Questo è il calcio. Dovrebbe saperlo anche Paolo Guidetti, il direttore sportivo del Legnano che attende il Varese domenica allo stadio Mari e che ha detto: «Il Varese viene dipinto come un carro armato capace di distruggere tutti e tutto. Chi ha tutto da perdere è proprio il Varese, che dovrebbe ammazzare il campionato, ma a giudicare dalle ultime due gare casalinghe mi pare che pure per i biancorossi non siano tutte rose e viole». Il signor Guidetti era a Masnago le ultime due domeniche, o ha solo sentito dire e si ferma al risultato? Perché non guarda in casa sua? Parli di lillà, lasci stare rose e viole: forse ne sa di più. I momenti più belli: l’esultanza di Ciavarrella e Galparoli affacciati alla balaustra per applaudire la squadra (era bella perché era vera), il guerriero Gheller che a 40 anni si sporca nel fango della Coppa Italia d’Eccellenza a Cisano Bergamasco col piglio del leader, i 150 tifosi che in un mercoledì scappano dal lavoro per esserci, la Ribes di Giorgio e Mirella Scapini con la copertina rossa che abbaia al gol di Becchio. E adesso tutti a Legnano come andavamo al Piola, a Cittadella, a Marassi, all’Euganeo. Ma con un Varese che può finalmente chiamarsi, a tutti gli effetti, Varese.