«Sogno la serie A e sto male per la Pro. Varese, che ricordi»

«Durante il mercato di gennaio è arrivata qualche richiesta dalla Serie B». Il nostro Francesco Inguscio intervista il portiere biancoblu Cosimo La Gorga

Tutti d’accordo: tra le (poche) note liete di questa tribolata stagione c’è Cosimo La Gorga. Lo dicono le medie voto, i tifosi, gli addetti ai lavori: tra i tigrotti da salvare c’è sicuramente il 21enne portiere cresciuto nel Varese, alla sua prima stagione da titolare in Lega Pro. «Eppure non posso essere contento al 100%: per un calciatore la prima cosa che conta è sempre la squadra».

E già allora avevamo un buon feeling. La sua presenza mi è stata d’aiuto anche qui a Busto, soprattutto all’inizio, nella fase dell’ambientamento. Oltre ai consigli tecnici, il mister mi trasmette sempre una grande carica.

Quando entro in campo mi isolo da tutto quello che c’è fuori, a cominciare dalla classifica. Non penso a nient’altro che non sia la partita.

Durante il mercato di gennaio è arrivata qualche richiesta dalla Serie B. Che dire, mi ha fatto piacere: se c’è qualcuno che ti nota, vuol dire che stai facendo un buon lavoro. Per me è uno stimolo per migliorare ancora.

Credo che ogni calciatore abbia il sogno di giocare in Serie A. Non so se raggiungerò mai questo traguardo, ma so che ce la metterò tutta per arrivarci.

Da piccolo ero tifoso del Milan. Ma mi basterebbe arrivare in A: indipendentemente dalla squadra sarei comunque felice.

Beh, in Italia abbiamo avuto il più forte portiere degli ultimi vent’anni: Gigi Buffon non può che essere un esempio per tutti quelli che ricoprono il mio ruolo. Mi piacciono anche Casillas e Neuer. Tutta gente scarsa, vero?

Uscire mi piace, come testimoniano tutte le botte che ho preso. L’ultima a Mantova, il 19 dicembre: mi è costata la frattura del setto nasale. Ma se un portiere ha paura di uscire deve cambiare mestiere.

…perché si è scarsi a giocare.

Un po’ per caso e un po’ perché mi piaceva. Pensi che ho iniziato come attaccante, a Lazzate e nella Pro Patria.

Mio padre mi ha spinto a cambiare ruolo. Ho giocato in porta per la prima volta a Lesa, avrò avuto 11-12 anni. Mi sono trovato benissimo. E da allora non ho più cambiato ruolo.

Il primo momento duro è stato dopo l’infortunio alla faccia che ho subìto nella Primavera del Varese: mi sono rotto la mascella e l’osso dell’orbita. Tuttora mi porto dietro due placche come “ricordo”. E poi i sei mesi a Voghera, la mia prima vera esperienza fuori casa. Non è stato un periodo facile: per fortuna ho potuto contare sulla mia famiglia. Ma c’è un’altra persona che devo ringraziare.

Premesso che tutti gli allenatori dei portieri che ho avuto sono stati importanti, ce n’è uno a cui sono particolarmente legato: Pietro De Bernardi, che ho avuto a Gavirate.

Solo ricordi belli. In biancorosso ho passato nove anni, facendo tutta la trafila dai giovanissimi alla prima squadra, fino all’esordio in B. Giocavamo a Vercelli, io ero già strafelice di andare in panchina. A un certo punto viene espulso Bastianoni: tocca a me. Per qualche secondo non ho capito più niente: un mix di emozione, carica, entusiasmo.

Credo di saper difendere bene la porta. Devo migliorare nelle uscite. E nel carattere: il portiere deve essere un punto di riferimento.