Le patenti speciali un’odissea senza fine

Perché la gente normale mica lo sa, cosa significa andare a rifare la patente per chi normale non lo è: non lo è più, non lo è mai stato. Cosa significa accettare il fatto di trovarsi in mano una patente speciale e una macchina adattata con marchingegni inutili (spesso) e costosi (sempre), oltre a un timbro senza appelli: disabile. Una patente da rinnovare ogni cinque anni con tanto di visita medica, e una giornata da dedicare al rito dell’interrogatorio di fronte a una commissione chiamata a decidere: puoi continuare a guidare,

ma la tua macchina dev’essere equipaggiata con questo e con quello. La gente mica lo sa, che cosa significa. Perché probabilmente pensa che i problemi con cui un disabile è costretto a lottare tutti i giorni siano legati alla sua condizione fisica: barriere (architettoniche, morali, mentali) e pregiudizi da superare e da combattere, normalità e autostime da raggiungere e conquistare. E invece la gente ignora che i problemi più stronzi e cattivi da affrontare, per un disabile, in realtà sono altri: e sono quelli legati alle norme e alla burocrazia. Tralasciamo le mille trafile e i vergognosi gorghi nei quali ognuno di noi (sì, di noi: mettiamo subito le cose in chiaro così evitiamo fraintendimenti) si deve infilare per ottenere una protesi per poter camminare, lavorare, o semplicemente prendere in braccio i propri figli: ne parliamo un’altra volta, magari, che qui stiamo disquisendo di patenti. Perché dietro a quelle che vengono chiamate “patenti speciali” c’è un mondo di cavilli, rigidità e umiliazioni che uno da fuori mica si immagina.

Della visita da ripetere ogni cinque anni, s’è già detto: e non è tanto per la mezza giornata che si perde. Quel che fa girare le balle è la pretesa di controllare, guardare dentro, sondare attraverso una visita medica. Insomma: sia mai che, in quei cinque anni, magari complice un miracolante viaggio a Lourdes la disabilità sia miracolosamente guarita. Un braccio ricresciuto, una gamba tornata sana, una sedia a rotelle da buttare via. Niente da fare. La commissione vuole il disabile lì davanti, lo vuole scrutare, per poi sputare la sua sentenza: sei ancora malato. E se vuoi guidare, devi continuare a equipaggiare la tua macchina agghindandola come un’astronave. Facciamola pratica, e buttiamo giù l’esempio di chi scrive: cambio automatico (serve), servosterzo (ormai lo monta di serie pure la Smart), pomello al volante (serve), centralina a infrarossi per l’azionamento di tutti i comandi (montata, mai usata), leva del freno a mano modificata (inutile). Il costo dell’inutile pacchettino supera i duemila euro (annullando lo sconto sull’Iva sull’acquisto di una macchina ogni quattro anni riservato ai titolari di patenti speciali). Ovviamente sei obbligato a guidare solo la tua macchina, anche se la tua disabilità di permetterebbe di utilizzarne tranquillamente una con il solo cambio automatico: scordati di poterne noleggiare una, per esempio. Chi scrive, osò far notare tutte queste cose alla commissione, qualche anno fa, ottenendo una risposta secca da parte dell’ingegnere: “Ma lei si rende conto che è un disabile?”. Massì, va bene così. Ormai, il callo è fatto: ogni cinque anni tocca passare una mattinata in una sala d’aspetto (perché le patenti speciali son tante, e la commissione è una), rimuginando su come tutto potrebbe essere più semplice. Se solo si imparasse ad anteporre la ragione a una norma fredda e insensibile, se solo la si piantasse di tirare su muri di fronte a tutto quello che ci appare diverso.

Francesco Caielli

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