In futuro, evitiamo la pagliacciata dell’attesa. E abituiamoci a cantare il “cata su” al deserto

Il commento di Francesco Caielli

E adesso sarebbe fin troppo semplice dire le cose che si dicono in questi casi. Che il derby senza tifosi è una porcheria, che la pallacanestro italiana non è ancora morta perché esistono queste sfide – e un po’ di sana rivalità campanilistica – a mantenerla in vita.

La realtà è che non ci abbiamo creduto nemmeno per un istante: sapevamo già, ce lo sentivamo, che la trasferta a Cantù per i tifosi di Varese sarebbe stata vietata. Di questi tempi, eliminare il problema alla radice è più semplice che provare in qualche modo a risolverlo. Gli ultimi anni ci hanno raccontato di sfide che, quando sono state aperte alle tifoserie ospiti, si sono portate dietro strascichi di tensione e problemi: dai petardi fuori dal Pianella all’auto di Roberto Cimberio (con famiglia all’interno) presa a calci. Oggettivamente difficile pensare a una soluzione differente.

Per cui, evitiamo questa pagliacciata dell’attesa, in futuro. Evitiamo le prevendite aperte su internet, evitiamo i biglietti liberamente acquistati che adesso dovranno essere rimborsati, evitiamo di aspettare fino al venerdì (due giorni prima di una partita calendarizzata da mesi), evitiamo di prendere in giro la gente e diciamolo chiaro e tondo. Varese e Cantù, d’ora in avanti, si giocherà senza i tifosi ospiti.

Con buona pace del fatto che a Varese anni fa si siano spesi dei quattrini (li ha spesi la società) per costruire una gabbia a prova di kamikaze dove stipare i teppisti provenienti d’ogni parte del mondo. Con buona pace del fatto che domani sera non si giocherà al Pianella (vetusto, oggettivamente difficile da controllare, e finalmente pensionato) ma a Desio: un impianto moderno, dove gestire l’ordine pubblico dovrebbe essere teoricamente più semplice. Questo è lo sport di oggi: più

brutto, e per mille motivi, rispetto a quello di vent’anni fa. E facciamo un sano mea culpa tutti quanti – dirigenti, tifosi, giornalisti, ultras, agenti, giocatori, allenatori – perché una fettina di colpa ce l’abbiamo. Non ci siamo accorti, probabilmente, che stavamo tirando un po’ troppo la corda. E ora, eccoci qua: un derby silenzioso e quindi un “non derby”. Facciamoci l’abitudine, perché il calore di certe sfide resterà sempre di più un ricordo lontano. E per un po’ si canterà ancora il “cata su”: ma a furia di cantarselo da soli, si smetterà di fare pure quello.

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