Come eravamo. Gli Ossola, i colori del mito

Presentato ieri a Palazzo Estense, la storia di una famiglia che ha dato lustro alla città. Franco, Luigi e Aldo: tre fratelli uniti dalla passione, dall’eccellenza e diventati immortali

«Le foto di questo libro sono rigorosamente in bianco e nero. Nonostante ciò, si tratta di un libro pieno di colori, come la vita che narra. Ci sono tutti, compreso il nero della tragedia: anch’esso ha contribuito a far diventare la storia degli Ossola una leggenda. Una leggenda che appartiene a Varese, città che spero ritorni presto ad essere un punto di riferimento per lo sport e per la vita sociale».

(Foto by Varese Press)

Un’emozione a caso, delle tante che ieri pomeriggio hanno fatto diventare gli affreschi del Salone Estense una macchina del tempo verso un passato di eccellenza formato famiglia. Così privato eppure così pubblico, trasversale a un’Italia cangiante (il Fascismo, la guerra, la rinascita, il boom economico) e a una Città Giardino che nella storia degli Ossola ci finisce per fato (dando i natali ai suoi protagonisti) ma che poi ci mette uno zampino «di laboriosità, semplicità e impegno, qualità che hanno sempre contraddistinto i suoi abitanti». Franco, “Cicci” e Aldo compresi, ovviamente, gente che per classe i pianoforti nella vita li ha sempre suonati, comportandosi, però, con l’umiltà di chi deve solo spostarli.

«Se facciamo un libro, lo dobbiamo fare su tutti e tre i fratelli». L’idea, lo rivela sornione uno dei tre autori, Flavio Vanetti, l’ha avuta Aldo, ieri un arcobaleno di emozioni (orgoglio, soddisfazione, commozione, nostalgia, consapevolezza) più o meno mal celate dietro quei baffetti che resistono dai tempi d’oro, quando – «con la testa alta sempre fissa al gioco» – dirigeva l’orchestra sinfonica più famosa del parquet. In Italia, in Europa, nel Mondo.

(Foto by Varese Press)

Non c’è Aldo senza Franco, non c’è Franco senza Luigi, non c’è Luigi senza Aldo. Sempre considerati singole stelle nel rispettivo empireo di appartenenza (Franco e Luigi nel calcio, Aldo nella pallacanestro), riscoperti ieri dalla città che sa ancora apprezzare il guizzo velato di malinconia che solo il ricordo regala (gremito il Salone Estense) come una costellazione. Merito proprio del volume edito da Macchionne ”Gli Ossola: Franco Luigi Aldo. Le storie, le fotografie, i documenti di tre fratelli che hanno onorato lo sport”.

Nella foto più famosa che lo ritrae, Franco ha i capelli impomatati, gli occhi neri profondi e lo sguardo serio, fisionomia così lontana dall’identikit – un po’ scanzonato e un po’ caricaturale – che dei calciatori abbiamo oggi. Franco jr, che nel libro ha curato proprio la parte sull’attaccante che fu del Varese e del Grande Torino, ha conosciuto suo padre da immagini come quella sopra descritta, senza mai disprezzare il destino che lo ha fatto nascere orfano della tragedia di Superga.

Ciò che quell’aereo perso nella tempesta del 4 maggio 1949 gli ha tolto, lui lo ha restituito a piene mani alla collettività, sotto forma di racconto, scavando generosamente in archivi tenuti con cura certosina e nel cuore di chi aveva frequentato quel genitore mai conosciuto: «Per me ha parlato proprio il cuore, insieme all’irresistibile fascino di riscoprire la figura di mio padre. Partì coraggiosamente da Varese per affermarsi nel calcio, fu il primo vero campione del Grande Torino, ricordato da tutti per la sua furbizia e per il suo impegno. Mi emoziono a pensare che qualcuno, sfogliando queste pagine, possa arrivare a conoscere meglio un grande varesino».

«Cicci saluta tutti, ma non può essere qui: sta cercando di superare un momento difficile». Ci fosse, forse si commuoverebbe per l’affetto verso di lui e verso la sua famiglia, a patto di non chiedergli di parlare del calcio di oggi: «È un mondo che non sopporta più, inquinato dalla violenza e dal denaro». A presentare il secondo Ossola per anzianità, classe 1938, ci ha pensato la penna di Franco Giannantoni, un’autorità in materia di Varese Calcio (e non solo): «Un minotauro, capace com’è stato, di eccellere in due sport. La morte a breve distanza del fratello Franco e del padre Gino ne hanno segnato l’esistenza e il carattere, esaltando il suo lato timido (che ha reso un’impresa raccogliere dalle sue parole questa storia), senza impedirgli di essere un uomo leale, un uomo per bene».

La sua epopea è cullata dall’oratorio di san Francesco, palestra di vita e di valori: calcio e basket, basket e calcio. Eccelle nell’uno (serie A con la Robur et Fides) e anche nell’altro, finendo per scegliere la strada del pallone che rotola sull’erba. Nasce il grande Varese, quello dei Peo Maroso, dei Giancarlo Beltrami, dei Carlo Soldo, di capitan Ossola: «Cicci era un Pirlo “ante litteram” – lo descrive Soldo – Aveva visione di gioco e senso della posizione». Luigi porta i biancorossi in A, poi va a Roma, poi ancora a Mantova, infine dice basta. Oggi non è qui ma è come se ci fosse, presente nelle lacrime che velano di commozione il viso di chi lo ricorda.

Mentre la sua storia viene declamata dalla bocca di chi lo ama e lo ha amato, sullo schermo allestito nel Salone compare un’immagine: lui, impermeabile bianco. davanti alla basilica di san Vittore per i funerali del padre Gino. E allora ricordi da dove si è partiti: «Nella storia degli Ossola ci sono tutti i colori, anche il nero».

La prima fila del Salone Estense è – come spesso capita a Basket City – un sancta sanctorum della pallacanestro italiana: da sinistra a destra ci sono Sandro Gamba, Paolo Vittori, Dino Menaghin, Guido Borghi, Toto Bulgheroni, Dodo Rusconi, Massimo Lucarelli. Flavio Vanetti, autore della parte di libro dedicata al Von Karajan dei canestri, lascia a loro il compito di dare dimensione plastica all’epopea del sodale di mille battaglie, compito eseguito con il consueto mix di allegria, serietà e amicizia di chi resterà per sempre compagno di squadra. Bulgheroni: «Un onore aver giocato con lui, rendeva migliore chi gli stava intorno». Gamba: «Aldo era un cavo che univa la panchina al campo. Era un play completo: difesa e attacco, testa alta e mani veloci». Vittori: «Quando difendeva si attaccava all’avversario fin dagli spogliatoi». Poi, rivolto al sindaco Davide Galimberti: «Ma Aldo Ossola ha la cittadinanza onoraria? L’avete data a Bob Morse, ma se c’era uno insostituibile qui, era lui. Ma è possibile dare la cittadinanza a una famiglia intera?». Applausi.

E stavolta non servono schermi, nè fotografie, per rimembrare ciò che è stato, pubblico di una leggenda cestistica che fece parlare il mondo e privato di un gruppo di ragazzi che viveva i propri giorni come stava in campo. Ridendo: «Eravamo a Tel Aviv e la guida locale ci stava spiegando come si dicesse nella lingua autoctona la frase “quando fuori piove”. Dal fondo del gruppo si senti Aldo esclamare: «A Vares, quand al pioev, sa dis vada via el cù”. Sipario, risate e malinconia, fuse insieme: a essere cambiato non è solo lo sport, ma anche la goliardia». Aldo, che indossa una cravatta gialla appartenuta a Franco e griffata con tutte le firme dei giocatori del Grande Torino, ride e illumina la stanza.

Lui c’è, Cicci è lontano, Franco riposa nel mito di chi se ne è andato troppo presto. Tutti i colori degli Ossola, però, luccicano come non mai.