Vaccinazioni 0-6 anni, Marco Cosentino: “Imporre obblighi e sanzioni è più semplice che puntare su informazione ed efficienza del sistema”

Il direttore del Centro di Ricerca in Farmacologia Medica dell'Università dell'Insubria fa un'analisi attenta e dettagliata sulle vaccinazioni pediatriche obbligatorie nella fascia 0-6 anni

Il D.L. 73/2017, introdotto nel 2017 dall’allora ministro Lorenzin e successivamente convertito in legge, ha previsto il passaggio da 4 a 12 – poi rettificate a 10 – vaccinazioni obbligatorie per i bambini nella fascia di età 0-6 (anti-poliomelica, anti-difterica, anti-tetanica, anti-epatite B, anti- pertosse, anti-haemophilus influenzae b, anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite, anti-varicella).
Questo provvedimento è stato ufficialmente concepito per rafforzare l’allineamento alle linee guida europee che identificano nella soglia minima del 95% di copertura il raggiungimento della cosiddetta “immunità di gregge”.

Professor Cosentino, qual è il suo parere in merito a tale provvedimento?

Si tratta senza dubbio di una radicale inversione degli orientamenti di politica sanitaria così come chiaramente indicati nei precedenti piani nazionali di prevenzione vaccinale del ministero della salute, i quali da molto tempo si stavano ponendo l’obiettivo di superare ogni obbligo puntando sull’informazione e sull’efficienza di sistema. Efficienza che dovrebbe tra l’altro includere, anche secondo i documenti ministeriali, un sistema informativo efficace che abbia come base anagrafi vaccinali ben organizzate e un buon sistema di monitoraggio degli eventi avversi dovuti ai vaccini, in grado di assicurare anche il monitoraggio nel tempo dei casi. Ovvio che tutto questo richiede organizzazione, competenza, risorse e investimenti, sia diretti in sanità sia indiretti in istruzione, cultura, scuola, università e ricerca scientifica. Al contrario, imporre un obbligo al cittadino con sanzioni incluse si può fare in uno schiocco di dita, al netto della sua compatibilità con i principi costituzionali.

Il decreto è stato predisposto sull’onda di un acceso dibattito pubblico relativo al presunto aumento di casi di morbillo in Italia e, secondariamente, in altri paesi EU. Lei cosa ne pensa?

In base ai dati ufficiali ISS in Italia non è esistito alcun aumento di casi almeno fino al 2017, e in particolare il numero di casi segnalato non è mai stato così basso dal 2010 come negli anni 2015 e 2016 (https://www.epicentro.iss.it/morbillo/bollettino). L’aumento che si osserva nel 2017, almeno in base alla mia esperienza con i sistemi di farmacovigilanza basati sulle segnalazioni spontanee di sospetti eventi avversi da parte dei medici (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/11699617/), è alquanto probabilmente legato al clamore mediatico che potrebbe aver indotto i medici a segnalare a scopo cautelativo.

Il che ci riconduce all’esigenza prima di tutto di esser certi di disporre di sistemi di monitoraggio efficienti. Conoscere per deliberare, come si dice. E non si può ignorare che i focolai di morbillo con conseguenze anche gravi sono di regola legati a condizioni socioeconomiche critiche e a condizioni igieniche precarie. Non a caso le notizie di cronache relative a focolai di morbillo e di altre malattie infettive nel nostro come in altri paesi europei riguardano spesso fasce di popolazione povere, nomadi e migranti. Ha indubbiamente senso offrire vaccinazioni gratuite, a condizione che questo avvenga nel quadro di un pano complessivo di assistenza sanitaria integrata e di miglioramento delle condizioni socioeconomiche. Poi, certo, alcuni probabilmente hanno anche ascoltato ministri che su canali televisivi nazionali hanno raccontato di focolai di morbillo mai verificatisi: anche questi sono a loro modo effetti avversi che vanno riconosciuti per limitarne i danni.

Facendo una valutazione benefici/eventuali rischi, ritiene che tutti i vaccini obbligatori siano indispensabili? Pensa che le tempistiche e l’inoculazione di più vaccini in una volta sola siano l’ideale (somministrazione di 6 vaccini – esavalente – a 60 giorni di vita, ndr)?

La mia opinione sui vaccini come sui farmaci in generale è che sia sempre una buona cosa avere a disposizione tante opportunità di prevenzione e cura. E poi ognuna va valutata per i benefici che ci si può verosimilmente attendere in relazione ai rischi legati alla sua assunzione. Un principio generale della medicina clinica è che i rischi legati all’assunzione di un farmaco da parte di un individuo debbano essere inferiori ai benefici attesi in relazione alla gravità della malattia. Per questo siamo disponibili ad accettare effetti avversi anche importanti per farmaci che siano in grado di curare malattie letali come i tumori. I vaccini vengono somministrati a scopo preventivo in persone sane che hanno il pieno diritto di desiderare di rimanere tali. Questo è il motivo per cui sia pure faticosamente si è giunti a riconoscere l’esigenza di garantire risarcimenti a chi – vaccinatosi con fiducia – ha poi subito danni. E per questa medesima ragione sul tema dei vaccini si incrociano e apparentemente confliggono il principio dell’inviolabilità del corpo e dell’autodeterminazione con quello della tutela sanitaria delle comunità. L’articolo 32 della nostra Costituzione riconosce la salute come diritto individuale, col che risolvendo il conflitto a favore del singolo, e pone in ogni caso nel rispetto della dignità della persona umana il limite a eventuali obblighi.
Da un punto di vista prettamente medico, anche sul piano etico, idealmente un vaccino non dovrebbe causare alcun danno alla persona che lo riceve, dato che questa persona è in salute e assume un vaccino per restare in salute. Ovviamente non esiste alcun farmaco, e dunque nemmeno alcun vaccino, del tutto privo di rischi. Così il fronte della discussione arretra sull’esigenza di disporre di un sistema di valutazione dei rischi efficiente e affidabile, che fornisca dati credibili sui quali ognuno possa fondare le proprie scelte. E qui si finisce su un terreno che negli ultimi anni è stato teatro di conflitti e controversie. Basti considerare che la valutazione del nesso causale tra eventi avversi e vaccini ha criteri propri del tutto difformi da quelli in uso per gli altri farmaci (a suo tempo adottati con il pur lodevole intento di aumentare la “fiducia” nei vaccini). Oppure si sfogli il manuale AIFA per la valutazione delle reazioni avverse dopo vaccinazione, che – dopo aver illustrato con grande precisione e competenza tutta una serie di condizioni patologiche e il quando e il come possono essere o meno legate a determinati vaccini – all’improvviso se ne esce apoditticamente osservando che autismo e sindrome della morte in culla non possono e non devono mai essere associate ai vaccini. Come dire che “nessun farmaco” può essere associato al rischio di sviluppare tumori: ovvio che non presenti rischi l’aspirina, sulla base dell’esperienza fin qui accumulata. Altrettanto ovvio che altri farmaci invece abbiano questo rischio (ad esempio alcuni antitumorali, per i quali il rischio è controbilanciato dai benefici attesi). E ancor più ovvio che se per assurdo dovessero manifestarsi rischi con l’aspirina questi dovrebbero poter essere identificati, verificati, discussi e investigati con i migliori mezzi nell’interesse di tutti. Imporre “ex cathedra” aprioristiche e ingiustificate certezze non aiuta ad alimentare la fiducia, a meno che non si stiano trattando questioni di fede, che di regola però appartengono ad ambiti diversi rispetto a quelli propri della medicina fondata sulle evidenze scientifiche.
E infine la questione della somministrazione di molti vaccini a breve distanza di tempo in età neonatale solleva legittimi dubbi che possono ricevere adeguate risposte solo in presenza di un sistema di ricerca e sviluppo di prodotti farmaceutici efficiente ed etico, insieme a un sistema pubblico di verifica delle evidenze a scopo autorizzativo e di successiva vigilanza sulla sicurezza dei prodotti medicinali (che siano vaccini o altri farmaci) ben organizzato e funzionante. E’ innegabile che oggi non sia precisamente questa la situazione, ma proprio per questo è certo che molto può essere fatto da qualsiasi governo centrale consapevole e motivato così come da enti sanitari locali competenti e determinati ad assolvere responsabilmente i loro compiti.

Cosa pensa delle obiezioni secondo cui alcune vaccinazioni non garantirebbero protezione collettiva ma solo eventualmente individuale (anti-difterica, anti-tetanica) o quelle per cui il contagio avviene significativamente per via sessuale (anti-epatite B) e per cui i neonati vengono comunque immunizzati?

Che il vaccino contro il tetano protegga solo chi lo fa è un dato di fatto non opinabile, non foss’altro che il tetano non è trasmissibile da un individuo all’altro. Qualche dubbio ci può essere invece per quello contro la difterite, che alcuni studi sostengono sia in grado non solo di proteggere dalla tossina ma anche di ridurre almeno un minimo la possibilità che un contagiato, che non si rende conto di ospitare il microrganismo patogeno, lo trasmetta inconsapevolmente ad altri.
La vaccinazione dei minori contro le malattie sessualmente trasmesse è invece un tema complesso. Mentre è indubitabile che in età prepubere la migliore prevenzione sia quella che si indirizza a genitori e famigliari e in generale agli adulti a contatto con i bambini, l’opportunità di offrire vaccinazioni agli adolescenti in generale è controversa: la prevenzione migliore si attua difatti con l’astinenza o con le opportune precauzioni quali ad esempio evitare pratiche ad alto rischio e impiegare mezzi di protezione meccanica. I vaccini potrebbero al contrario indurre infondata percezione di sicurezza e “invulnerabilità”, tanto più se proposti al di fuori di un quadro complessivo di educazione alla sessualità e in generale ai rapporti con gli altri. Il tema è sempre il medesimo: i vaccini di per sé sono strumenti e come ogni strumento l’uso che se ne fa non è mai neutro ma dipende dal contesto.

La legge prevede una revisione triennale degli obblighi per alcuni vaccini (morbillo, rosolia, parotite, varicella) in base ai dati epidemiologici e delle coperture vaccinali raggiunte. Ad oggi non è stata fatta nessuna revisione nonostante siano passati più di cinque anni. Secondo lei perché?

Secondo i dati ufficiali ISS (https://www.epicentro.iss.it/vaccini/dati_Ita) il nostro paese ha un’ottima copertura vaccinale per tutte le malattie per cui è previsto l’obbligo, copertura che ha mostrato nel 2020 per comprensibili motivi una flessione peraltro minima (forse un poco più consistente per parotite e rosolia). Converrebbe conoscere i dati 2021 e quelli successivi, consapevoli nel frattempo che non esiste alcuna emergenza.

I bambini che non rispettano il calendario vaccinale obbligatorio non possono accedere o vengono espulsi dall’asilo nido e dalla scuola dell’infanzia per ragioni “di salute pubblica”. Cosa ne pensa?

Mi risulta che la norma sia considerata legittima in quanto riguarda l’accesso a servizi educativi non obbligatori, che peraltro tali sperabilmente rimarranno. Da cittadino ritengo che negare il diritto all’istruzione sulla base del mancato adempimento di un obbligo a un trattamento sanitario tanto più preventivo in un soggetto sano violerebbe qualche dozzina di principi fondamentali su cui si fonda la nostra convivenza civile e sociale.
Questo provvedimento si inserisce all’interno di un infiammato dibattito, sia sociale che accademico, su concetti molto discussi – ed esacerbati dal periodo di pandemia – quali l’identificazione percentuale di una cosiddetta “immunità di gregge” e il ruolo storico effettivo delle vaccinazioni nella lotta alle malattie.

Cosa pensa del concetto di immunità di gregge e dei meccanismi utilizzati per calcolarla/identificarne la soglia? Esiste un meccanismo di sorveglianza o revisione di questi processi ove necessario?

L’immunità di popolazione o di comunità è un concetto ingannevolmente semplice, che si fonda sulla stima del “numero di riproduzione di base”, corrispondente al numero di persone contagiate da un singolo individuo portatore del microrganismo durante il periodo infettivo. Il punto è che la stima del “numero di riproduzione di base” si fonda a sua volta su assunti matematici in gran parte arbitrari e comunque dipendenti dalla situazione di riferimento e dai modelli matematici applicati che sono molti e diversi. Bene dunque che si utilizzino anche queste stime nelle decisioni di politica sanitaria, a condizione che si tenga conto del loro intrinseco margine di incertezza e arbitrarietà. Innegabile comunque che nella crisi COVID-19 il concetto sia stato abusato strumentalmente oltre ogni giustificabilità fino a che la sua insostenibilità è apparsa evidente a chiunque.

E’ scientificamente corretto affermare, secondo lei, che è stata l’introduzione della vaccinazione di massa a contribuire a debellare determinate malattie o tenerne fortemente sotto controllo la diffusione?

Le vaccinazioni hanno avuto per alcune malattie un indiscutibile ruolo storico nel controllarne la diffusione. La loro importanza è quindi innegabile a condizione che non sia eccessivamente enfatizzata a scapito di altri processi di importanza fondamentale, tra i quali il miglioramento generalizzato delle condizioni igieniche e socioeconomiche delle comunità e degli individui svolge sicuramente un ruolo di primo piano. Si ha talvolta la sgradevole sensazione che l’enfasi sui vaccini nasconda una colpevole disattenzione nei confronti della necessità di continuare a garantire l’accesso universale a servizi sanitari pubblici ed efficienti, e più in generale di garantire una vita dignitosa a tutti attraverso le irrinunciabili tutele sociali su cui si fondano le nostre comunità. Questo vale tanto più in una fase storica come quella attuale, che vede a livello globale un’abbondanza di ricchezze e risorse senza precedenti, contrapposta localmente una rappresentazione di disponibilità limitate e di esigenza di tagli e riduzioni di spesa, utile più che altro a dissimulare lo smantellamento di molti fondamentali meccanismi di equa allocazione e redistribuzione.