Domani sera al Franco Ossola (ore 20) il Varese di Stefano Bettinelli affronterà in amichevole la formazione Primavera della Juventus allenata dall’eroe di Berlino 2006 Fabio Grosso. La partita sarà preceduta dalla presentazione della squadra (alle 19), condotta dall’inviato di Striscia la Notizia, Max Laudadio. Ma l’amichevole di domani, per noi, sarà l’occasione per abbracciare un figlio biancorosso che torna a Masnago. Gianluca Pessotto, bandiera del Varese con cui ha esordito nella stagione 1989/1990, prima di partire per l’Olimpo del calcio. Il “Pesso” ha vinto tutto con la maglia della Juventus (4 scudetti, 4 Supercoppe Italiane, 1 Champions League, 1 Supercoppa, 1 Coppa Intercontinentale) ed è stato un leader della Nazionale (22 presenze)
La sera di San Lorenzo riporta al Franco Ossola una stella che aveva illuminato il Varese con la forza del suo cuore generoso. Gianluca Pessotto, bandiera biancorossa all’inizio degli anni Novanta e ora responsabile del settore giovanile juventino, torna per la prima volta a Masnago, dove, alle 20 di domani, la squadra di Stefano Bettinelli si presenta alla città affrontando la Primavera bianconera.
Fa effetto ma sento di non essere mai andato via: se durante gli anni della mia carriera sono stato altrove, non ho dimenticato gli amici di Varese, a cui sono legato da un filo forte.
Sono felice che sia diventato il dirigente di riferimento del Varese, se lo merita. Lui è nato nel 1973 e io ho tre anni di più, per cui siamo cresciuti insieme: studiavamo entrambi all’Itpa e ci sentivamo la maglia biancorossa appiccicata addosso come una seconda pelle. Ero già in prima squadra quando Lele veniva ad allenarsi con noi perché negli Allievi spiccava per temperamento. Ci accomunava la voglia di imparare, di crescere e di sfondare. Avevamo lo stesso sogno e tutto era una scoperta, alla ricerca di quello che ci mancava.
Dopo aver vissuto il calcio giovanile, dovevamo sperimentare il mondo degli adulti. Chi esce dal vivaio deve poter giocare con continuità: non importa se in B o in C.
Sì, anche perché così potevo finire le superiori: allenandomi a Milanello, ero iscritto all’Itpa di Varese che ho completato in biancorosso. La scuola non è un fatto secondario.
Sì, perché nello spogliatoio c’erano compagni più anziani ed esperti, segnati da tante battaglie: avevano chili, cattiveria, determinazione e furbizia. Loro lottavano per obiettivi concreti come la promozione, la salvezza e i premi-partita: un punto o una vittoria in più garantivano quei soldi che facevano comodo a chi doveva mantenere moglie e figli.
L’impatto è stato duro e non scorderò mai la terribile preparazione atletica al golf di Luvinate. Il nostro capitano era Gaetano Paolillo, che mi aveva preso di mira: arrivavo dalla Primavera del Milan e si chiedeva se avessi la puzza sotto il naso. Il miglior modo per capire di che pasta fossi e, al tempo stesso per anticiparmi il clima della C2, era picchiarmi il più possibile in allenamento: le prendevo senza fiatare e non mi stufavo di mettermi a disposizione dei compagni.
Ero timido e sono entrato nello spogliatoio in punta di piedi: volevo farmi apprezzare per come ero e ho cercato subito l’esempio degli altri. Come tentavo di rubare i segreti a Van Basten, Gullit, Rijkaard, Maldini e agli fuoriclasse del Milan di Sacchi, così facevo al Varese: approfittavo di ogni secondo per imparare dai più grandi e dal solito Paolillo.
Era un caratteriale, un allenatore sanguigno e determinato, che pretendeva sempre il massimo e non trascurava la preparazione fisica. Al Milan avevo respirato la stessa cultura del lavoro e non ho avuto difficoltà a calarmi nella realtà del Varese, sovrapponendo le mie ambizioni a quelle della squadra.
Nel 1990 abbiamo vinto il campionato di C2 e le immagini sarebbero tante ma il flash abbagliante è la quinta di campionato con il Legnano: nelle prime quattro giornate avevamo sempre vinto, riuscendo a trascinare a Masnago seimila persone per il derby coi lilla, in cui abbiamo ottenuto un nuovo successo. Ero abituato a giocare davanti a pochi spettatori e quel colpo d’occhio sugli spalti mi lasciava senza parole.
L’ideale incontro fra buoni giovani e i “vecchietti” giusti, come Luigi Danova: era il più umile di tutti anche se aveva giocato in A.
Ero single e mangiavo sempre fuori: al Brigantino, storico ristorante gestito dal signor Emilio, dove gli strozzapreti al pesto erano qualcosa di devastante, o al Gallione, inimitabile per il risotto ai mirtilli.
È un “gollonzo” da podio perché sono andato a pressare un avversario nella sua trequarti e dal contrasto è nato il rimpallo che è diventato un pallonetto imprendibile per il portiere. Vincevamo 1-0 e non mancava molto al novantesimo ma ho voluto fare pressing in una situazione in cui avrei potuto anche risparmiarmelo: al Milan, però, avevo imparato che, oltre al talento, serve la determinazione e bisogna provarci sempre.
Sì ma per allenare i ragazzi nel modo corretto occorre tornare al calcio di strada, dimenticando l’ossessione per il risultato. In Italia, tutto quello che si fa durante la settimana è finalizzato alla partita mentre in Europa ci si allena pensando ai ragazzi, ai loro bisogni e alla loro crescita. Al centro del progetto devono esserci loro: non le squadre o gli allenatori.
Per un ragazzo può essere un peso ma è un onere altamente formativo perché sai di avere a che fare con piazza storica in cui ci sono paragoni sempre vivi. Io, ad esempio, quando andavo al bar a fare colazione, mi sentivo dire: «Il Varese di Fascetti era un’altra cosa». Era uno stimolo per pedalare al massimo.
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