"Vendeva la moglieCondannatelo"

PONTE TRESA La storia è quella di una povera donna, morta lo scorso 22 marzo per abuso di alcol e psicofarmaci: Gabriella Messina, 48 anni, non ha retto al peso di un’esistenza sbagliata e alle continue umiliazioni che era costretta a subire. Ma la vicenda di cui è stata suo malgrado protagonista non si è conclusa con la sua morte, perché per tutto quello che fu costretta a subire in vita, ora sono stati chiamati a rispondere i suoi parenti più stretti: il marito, Sergio Murgia, e i due cognati, Marco Murgia e Cristian Murgia.

Tutti e tre sono sotto processo, destinatari di pesantissime richieste di condanna, avanzate ieri mattina in tribunale a Varese dal pm Agostino Abate: sette anni e mezzo al primo (e 10mila euro di multa), e 8 anni e mezzo agli altri due (e duemila euro di multa). Il coniuge deve rispondere dell’accusa di sfruttamento della prostituzione, i cognati di istigazione al suicidio, rapina aggravata e minacce. Proprio così: lo sposo, secondo quanto sostenuto dall’accusa, faceva prostituire la moglie, per poi intascarsi i soldi. Una situazione dalla quale la donna aveva cercato di sottrarsi in tutti i modi, denunciando il fatto ai carabinieri ed effettuando una telefonata in loro presenza al marito nel corso della quale appunto questi le parlava di affrettarsi di tornare a casa e poi dei soldi che doveva incassare.

Una circostanza che pesa come un macigno sull’andamento processuale dei tre fratelli, difesi dall’avvocato Fabio Rizza. A quella denuncia, del giugno dell’anno scorso, seguì il giorno successivo l’intervento dei due cognati a casa della donna, armati di un’ascia, secondo quanto ha affermato la vicina di casa chiamata a testimoniare. E qui viene la parte più drammatica dell’intera vicenda: perché secondo il pm, i due, oltre a minacciarla gravemente, e a rapinarla dei soldi che aveva con sé, l’avrebbero istigata al suicidio, terrorizzandola e continuandola farla bere (vizio del quale erano a conoscenza), per mantenerla in uno stato d’angoscia permanente, al punto che all’arrivo dei carabinieri, quando ormai la loro minaccia si era dissolta, avrebbe tentato di tagliarsi le vene.

Subì un trattamento sanitario obbligatorio, quella volta. Il 10 marzo scorso, a processo iniziato, andò in coma etilico, e poi ancora il 15 marzo. Il 22 la morte. Nonostante fosse parte civile, con l’avvocato Furio Artoni, si è sempre rifiutata di deporre in aula: «Perché ciò avrebbe riprodotto quelle stesse condizioni di terrore che l’hanno ridotta in quello stato» ha affermato il pm Abate. Il suo legale ha chiesto 150mila euro di risarcimento a favore degli eredi.
L’8 maggio l’arringa difensiva e la sentenza.

Franco Tonghini

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