Vogliamo un calcio visibile a tutti

L’editoriale di Stefano Affolti

L’unica cosa che la serie A di oggi ha in comune con quella di tot anni fa (facciamo dai venti in su) è che per vederla devi pagare. Ma è cambiata la filosofia: in peggio, come (quasi) tutto il resto.Una volta o andavi allo stadio o ciccia: almeno fino ai parchi filmati delle trasmissioni serali e a un tempo di partita dispensato dalla Rai. Alla quale era severamente proibito mandare anche un secondo di diretta, e che spesso non diceva neppure quale mezza gara aveva scelto, per non rischiare di lasciare biglietti invenduti: la filosofia era “dal vivo o niente”.Adesso è l’esatto contrario: “in tv o niente”. Di chi va allo stadio non importa più un fico a nessuno, tant’è vero che i prezzi sono assurdi, gli orari balzani, gli spalti scomodi. O compri i pacchetti delle pay tv o ciccia: trasmettono tutto, a tutte le ore, anche con una qualità tecnica considerevole. Però hanno invertito i rapporti di forza: sono loro a comandare, l’unica cosa che non decidono (forse, per ora) è chi vince. E l’utente paga.Il pallone s’è venduto alle pay tv – satellitare o digitale, poco cambia – e ha scordato di essere storicamente l’oppio del nostro popolo, perciò popolare, alla portata di tutti. Il pallone s’è allontanato dalla gente: rimbalza altrove, in maniera virtuale, stile fiction. Si rimira allo specchio e non s’accorge che sempre meno occhi lo guardano. Perché la passione della gente resta strozzata da paletti, obblighi, costrizioni, salassi.Vero che le televisioni finanziano il carrozzone. Vero che consentono di apprezzare dettagli su dettagli. Vero che una partita si vede meglio in tv che allo stadio. E allora, dove sta il problema? Sta

nel fatto che il calcio è partecipazione di massa, è tifo, stadio, adrenalina, sfottò pubblico, sogni a buon mercato; invece è diventato poltrona, casa, stress, macerazione privata, sogni a pagamento.All’estero non funziona così. Lasciamo stare i nordici, che hanno culture diverse e più pragmatiche. Andiamo in altri Paesi latini, dove l’humus è simile ma lo “spezzatino” è meno indigesto.La Spagna riesce ancora a difendere un patrimonio che a noi è sfuggito di mano: c’è la pay tv Canal Plus che fa incetta di dirette, però c’è una fetta di torta anche per gli altri. La tv di Stato Tve trasmette una partita in chiaro per ogni turno di campionato: non i big match, criptati, però sempre merce di ottimo livello. E le emittenti private regionali riempiono il palinsesto delle loro squadre di riferimento: non con parole, come accade nei nostri discutibili salotti urlati, bensì con immagini. Partite, filmati, gioielli e non fuffa.L’Argentina ha fatto qualcosa di esagerato, ha creato un sistema opposto al nostro. Lì il calcio – fenomeno sociale dal peso specifico incalcolabile nelle more dell’ennesima crisi economica – è tutto gratis. Il governo di fatto ha finanziato l’acquisto dei diritti del campionato da parte della televisione pubblica, che trasmette tutte le partite in diretta tv e in streaming su internet (accessibile dall’universo mondo, non oscurato per basse questioni di diritti come da noi), con tanto di canale dedicato YouTube.Lo slogan è “Futbol para todos”, il calcio per tutti: populismo spicciolo, certo; e pure caro, perché è ovvio che quei diritti alla fine li paga la stessa collettività a cui vengono nominalmente regalati. Modalità strambe, però messaggio giusto: non togliamo alla gente ciò che le dà gioia.

È troppo sperare che un giorno non lontano anche in Italia si metta in pratica qualcosa che sia a metà strada tra l’attuale chiusura e l’apertura argentina? Il modello spagnolo salverebbe capra e cavoli: interessa ai padroni del giocattolo?