Esame del Dna per scovare il complice

La procura è pronta a sottoporre al test chi 29 anni fa era più vicino a Stefano Binda e a Lidia Macchi. Gli interrogativi: l’uomo si confidò con qualcuno? Chi affrancò il francobollo della lettera alla famiglia?

– Omicidio di : si ritorna al Dna. La procura è pronta a raccogliere il Dna di tutti coloro che 29 anni fa furono vicini al presunto assassino o alla stessa Lidia. Un complice ci fu, qualcuno che raccolse la terribile confessione di, 49 anni di Brebbia, arrestato venerdì scorso con l’accusa di aver stuprato e ucciso la giovane scout di 20 anni, studentessa di giurisprudenza e militante di Comunione e Liberazione, assassinata il 5 gennaio del 1987. Ne sono convinti gli inquirenti, ne è convinta il sostituto procuratore generale di Milano
che dal 2013, da quando cioè il fascicolo sull’omicidio di Lidia fu avocato dalla procura generale di Milano, coordina l’inchiesta condotta dagli uomini e dalle donne della squadra mobile della questura di Varese.

Uomini e donne che hanno lavorato in assoluto silenzio , ricavando dal francobollo affrancato alla busta che conteneva “In morte di un’amica”, missiva anonima che per gli inquirenti scrisse Binda e che è considerata dall’autorità giudiziaria la sua confessione del delitto, recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio del 1987 giorno delle esequie di Lidia, il Dna di chi quel francobollo lo appose e che, molto probabilmente, spedì anche la lettera. Un Dna che non appartiene a Stefano Binda: gli inquirenti nel corso delle indagini hanno già

avuto modo di compararlo una volta ricavando l’impronta biologica dal mozzicone abbandonato di una delle amatissime sigarette di Binda. Una delle poche ragioni, stando ai compaesani di Brebbia, che lo spingevano a uscire dall’abitazione di via Cadorna dove il quarantanovenne vive con la madre Mariuccia come una sorta di eremita da quasi 30 anni. Quel Dna non è di Binda, che martedì, subito dopo l’interrogatorio davanti al gip durante il quale si è avvalso della facoltà di non rispondere (cosa che ha fatto davanti alla stessa Manfredda poche ore dopo), è stato prelevato dall’arrestato in modo ufficiale. E Binda, stando a indiscrezioni, lo ha fornito senza battere ciglio quel Dna, sapendo che il test confermerà ancora che ad affrancare quel francobollo non fu lui 29 anni fa.

Se fosse il lucido calcolatore che viene descritto nell’ordinanza di custodia cautelare verrebbe da pensare che il Dna Binda lo fornisce volentieri sapendo di mettere in cascina una prova a discarico. Ma c’è quel complice, quello ipotizzato dagli inquirenti, che potrebbe tradirlo. Un complice a piede libero oggi, qualcuno che ha custodito il segreto per quasi 30 anni ma che ora, messo di fronte a fatti inconfutabili potrebbe decretare una condanna. E allora gli inquirenti stanno cercando; allargano il giro delle persone che potrebbero essere state coinvolte nel 1987. Quel Dna non è nemmeno di don , il sacerdote amico fraterno di Binda che, secondo gli inquirenti, 29 anni fa cercò di fornirgli un alibi nella notte in cui Lidia fu uccisa. Ma il gruppo degli amici inseparabili di allora, dove la militanza in Cl era il collante, è più ampio. E allora in quel cerchio allargato intendono cercare gli inquirenti. Il Dna potrà essere prelevato, come disposto dall’autorità giudiziaria, non necessariamente in sede di incidente probatorio. Certo qualcuno potrà rifiutarsi, ma a quel punto la sua posizione sarà molto complessa da giustificare. Qualcuno lasciò quella traccia 29 anni fa su quella busta. Impossibile che questo qualcuno non vide a chi fosse indirizzata la lettera, impossibile non sapesse della morte violenta della giovane scout. Per gli inquirenti favorì la posizione di Binda. Non fu presente allo stupro e all’omicidio, ma ebbe tutti gli elementi per comprendere la portata dell’accaduto. Ed è rimasto in silenzio per 29 anni. E per gli inquirenti questa è complicità.