«Giro, che fatica. Ma che emozioni…»

La promessa Edward Ravasi e la sua prima corsa rosa: «Mai vista tanta gente: montagne come uno stadio»

Correre e completare un Giro d’Italia equivale ad apporre una medaglia al valore sul petto. 3600 chilometri in bicicletta, 21 giorni, quasi 95 ore; salite, discese, cronometro, cadute, accade di tutto e tutto va superato per giungere in piazza Duomo a Milano. Edward Ravasi, giovane promessa di Besnate, è al suo primo anno da professionista e ha concluso domenica la sua fatica al Giro con la maglia della UAE Team Emirates, la squadra nata sulle macerie della Lampre-Merida. Tre settimane difficili, per lui totalmente inedite, per crescere e per carpire i trucchi del mestiere che si vuole fare da grande. Ieri, dopo qualche giorno di riposo, abbiamo parlato con lui di questa straordinaria esperienza.

Sì, sto cercando di recuperare un po’ le energie, sia fisiche che mentali. Ed è difficile soprattutto rimettersi nei binari giusti a livello mentale, non è facile staccare.

Sono contento perché le premesse erano particolari, è stato il primo Giro e sono stato convocato all’ultimo minuto: sono riuscito a concluderlo in buone condizioni, in crescendo specialmente negli ultimi tre giorni di corsa. Mi mancava una base di allenamento in altura, ero stato fermo per qualche problema al tendine del ginocchio, ma la base che prima mi mancava me l’ha data il Giro, ed è un’ottima base per i prossimi appuntamenti. Nei momenti difficili sono sempre riuscito a gestirmi bene e questo è un altro aspetto molto positivo.


A livello mentale, soprattutto. Ad inizio Giro tutti arrivano preparati al massimo però già dalla seconda settimana la concentrazione inevitabilmente cala. Devi essere presente di testa, pensare di tener duro e cercare di sfruttare al massimo un’occasione; questo tipo di atteggiamento ti fa superare la fatica che in quel momento fai. Nei giorni di riposo, si faceva anche fatica ad alzarsi dal letto avendo la possibilità di riposare, però poi vedevi i capitani prendere la bicicletta e farsi tre ore a pedalare, quando magari ne vorresti fare una o due. Questo significa essere presenti sempre con la testa e non solo con le gambe.


Sicuramente il giorno dello Stelvio, e non solo perché sono andato in fuga. È stata bella perché l’ho vissuta davanti e al tempo stesso mi sono accorto che nel ciclismo si fa davvero tanta fatica. Quando sono stato ripreso dal gruppo, è stata dura arrivare al traguardo. Come detto, non avevo preparato l’altura e per questo, superata una certa quota, sono andato in difficoltà. Nella tappa dolomitica dei cinque passi, sono andato in difficoltà proprio per quello. L’anno scorso invece avevo avuto la possibilità di allenarmi in altura per oltre un mese e mezzo, e nelle tappe al Tour de l’Avenir avevo la condizione giusta. È un dettaglio che fa davvero la differenza.


La squadra ha girato veramente bene, eravamo quella più giovane ma ognuno ha dato il massimo. Jan Polanc, il mio compagno di stanza, è arrivato 11o nella generale mentre credo che Rui Costa (per tre volte secondo) avrebbe meritato una vittoria, specialmente nel giorno in cui ha vinto Mikel Landa. Per le potenzialità a disposizione, abbiamo raccolto tanto e si è anche creato un bel gruppo: eravamo sei italiani più tre stranieri che lo parlano benissimo ed è stato piacevole anche trascorrere insieme ogni giorno il dopo tappa.

No, incredibile. Mi ha impressionato in maniera particolare la Sardegna, mi ha lasciato qualcosa dentro, al di là che fossero i primi giorni e per me era un ambiente completamente nuovo. Alle partenze ed agli arrivi al sud c’era tantissima gente, così come sulle montagne, che diventavano dei veri e propri stadi.