«Il Peo direbbe: credete nel Varese. Tutti allo stadio, vinciamo insieme»

Virgilio Maroso, figlio della leggenda, domenica sarà al Franco Ossola: «C’è bisogno di noi»

Giorni di grande incertezza, di speranze e delusioni, di rabbia e di preoccupazione. Bisogna difendere i colori biancorossi, ancora una volta. C’è bisogno di un consiglio, un aiuto, un abbraccio, di una voce dolce che rincuori; di coraggio, passione, appartenenza, di una mano forte che trascini. Serve speranza. E la cerchiamo alzando gli occhi al cielo insieme a Virgilio Maroso, cuore biancorosso come suo padre, il Peo.

Farebbe tutto il possibile. Sarebbe in giro dalla mattina alla sera, per trovare un aiuto, una via d’uscita. Unirebbe le persone. Busserebbe a tutte le porte. Si comporterebbe come nella rifondazione del 2004: ripartirebbe dalle docce fredde, dal marciapiede davanti alla ferramenta Maccecchini, insieme a Sogliano, rimboccandosi le maniche. Con il suo carisma avrebbe trovato di certo qualche porta aperta, qualche mano tesa. E darebbe l’anima per tutti, senza dimenticare nessuno: la lavandaia Rosi, il magazziniere Cunati, i mister e lo staff del settore giovanile e della scuola calcio, i giocatori, lo staff e i dirigenti della prima squadra. E per chiunque faccia parte, in qualsiasi veste, della “famiglia” Varese, compresi i fornitori come il Vanoni, persone che si devono solo ringraziare per tutti i sacrifici che hanno fatto e stanno facendo.

Radunerebbe la squadra, il giovedì o il venerdì, e sarebbe partito per la classica passeggiata verso il Sacro Monte: cappelle a piedi, con un panino da mangiare insieme su in cima. Poi avrebbe fatto un discorso dei suoi per tenere il gruppo unito, per tenere fuori dalla testa questo momento che per un calciatore è difficile: hai tutte le possibilità per vincere un campionato e festeggiare insieme alla tua gente, ma c’è un punto di domanda che ti tormenta, ti appesantisce. Avrebbe trasmesso sicurezza, voglia di andare a giocare la partita. Avrebbe dato stimoli. Avrebbe capito cosa passa nella testa dei giocatori, che da professionisti danno il massimo, ma che hanno bisogno di stimoli, importanti nello sport. Avrebbe lavorato sulla psicologia, sulla testa e sul gruppo.

Era un gran rompiscatole da capitano. Si interponeva tra squadra e società, ne era il collante. Avrebbe cercato il dialogo con le figure più importanti e rappresentative della società, trovando un punto di contatto. Un dialogo, ovviamente, a modo suo: vero, sincero, faccia a faccia. Raccontandosi la verità, sempre. E contemporaneamente avrebbe trascinato il gruppo, dando l’esempio ai giovani, infondendo ottimismo nei compagni e fissando un obiettivo per il gruppo.

Avrebbe amato, in silenzio. Seduto sul suo seggiolino, quello in cima alla tribuna laterale nord. Sempre presente e con il piacere di esserci. Come i 1500, i 2000 che ci sono sempre, in qualsiasi situazione e categoria, allo stadio la domenica. Quelli che sanno amare il Varese come faceva lui e come fa ancora, adesso, da lassù. Non amava apparire, ma soffriva sempre per il suo Varese e con il suo Varese. Anche gli ultimi tempi, da casa, non lontana dallo stadio. Seguiva le partite con la finestra aperta e capiva dalle urla cosa stava accadendo e mi telefonava allo stadio per saperne di più.

Andiamo allo stadio, tifiamo, stiamo vicini alla squadra e al mister. Non è il momento di pensare a tattica, sostituzioni o altro: oggi trasciniamo la squadra, scendiamo in campo insieme. Quando sarà il momento, tireremo le somme. Ora crediamo nel Varese.

Certo. Ognuno di noi, nel suo piccolo, è importantissimo per il Varese. Ne parlavo con un amico due domeniche fa: “oggi vado a vedere il Varese che ha bisogno anche di me”. Chi ama il Varese deve esserci, insieme a quei 1500 o 2000 che amano davvero il Varese. Dovrebbe venire anche chi, negli ultimi tempi, si è un po’ dimenticato del Varese: sarebbe bello che tornasse allo stadio e scendesse in campo insieme a tutti noi.