Anche i carcerati vogliono affetto. E non è (solo) questione di sesso

Le “stanze dell’affettività” sono una realtà in molti paesi. Non in Italia

Gli “spazi per la cura degli affetti” sono stati introdotti nella discussione del Ddl di riforma del processo penale in Commissione Giustizia del Senato: nella riforma approvata in via definitiva, è contenuta una delega al governo sull’ordinamento penitenziario in cui è previsto anche, tra gli indirizzi, il «riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute».

Quello che è un sacrosanto diritto sancito dalla Costituzione della Repubblica, viene sbattuto in prima pagina dalla maggior parte dei media con titoli pruriginosi che offendono la dignità delle persone private della libertà e, soprattutto, dei familiari. Già, perché di questo si tratta, di famiglia e affettività. Quell’affettività che vede nel sesso una componente imprescindibile di completamento del rapporto con il partner, quella che è fatta di dolcezza e di carezze che leniscono il dolore causato dalla lontananza.

In carcere se ne parla molto sorseggiando il caffè o durante i passeggi, e non sono pochi i detenuti che si dicono contrari ai colloqui intimi. Altri, invece, raccontano di esperienze vissute nelle carceri spagnole oppure olandesi, dove è possibile fruire del “colloquio coniugale” da consumare in apposite celle; nessun problema per chi non ha una partner: c’è il catalogo delle escort con ampia scelta e prezzi popolari. Nelle celle se ne discute animatamente e la maggior parte dei detenuti, soprattutto gli anziani “della galera”, che hanno una relazione stabile con mogli o compagne, si dice indignata alla sola idea di far entrare in carcere la propria donna per consumare il bisogno fisiologico. È una questione di dignità, dicono.

Poi c’è il fronte dei sorveglianti, che attraverso il sindacato fanno sapere di non essere disposti a passare per “tenutari del bordello” e annunciano barricate. Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. È di famiglia e diritto all’affettività che si sta parlando, non di sesso. E ci arriveremo con il consueto italico ritardo rispetto al resto del mondo, e non necessariamente paragonando il nostro sistema a quello dei Paesi più evoluti. La burocrazia li chiama “spazi

per la cura degli affetti”, nella sostanza sono le “love rooms”, luoghi in cui il detenuto, uomo o donna, potrà riservarsi un po’ di intimità con il partner. La sessualità è un ciclo organico, un impulso fisiologicamente insopprimibile, un bisogno di vita: trattare di affetti in carcere e, molto di più, di sessualità, suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. La sessualità costituisce l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti a non essere normato, quasi che l’afflizione della privazione sessuale debba necessariamente accompagnare lo stato di detenzione.

Carcere e affettività sembrano ossimori, due parole inconciliabili, perché se c’è qualcosa che nega la confidenza, la libertà di espressione dei sentimenti, questo è proprio il carcere. La questione viene sollevata spesso con una domanda: è giusto concedere momenti di piacere a chi, con le sue azioni, ha causato dolore ad altri? A ciò si aggiunga la situazione reale delle carceri nel nostro Paese, caratterizzata dal cronico problema dell’edilizia carceraria, dal sovraffollamento, nonché dalla carenza di personale penitenziario. La moderna criminologia ha però dimostrato come incontri frequenti e intimi con le persone con le quali vi è un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel difficile percorso di recupero del reo. Diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative per garantire l’esercizio – in ambito carcerario – del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei.

In Canton Ticino, ad esempio, si concede la possibilità di trascorrere momenti d’intimità con i propri familiari o amici per sei ore consecutive in una casetta situata nella zona agricola del carcere. In Italia mancano simili spazi e le proposte avanzate sono recepite con non poca resistenza, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività”, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”. Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un “diritto all’affettività” avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria.

In carcere, con il sesso negato, il tormento sessuale può essere “ammorbidito” approfittando della legge Gozzini e dei permessi premio per alcune categorie di detenuti: chi può andar fuori rinvia la vita intera a quei giorni; altri li aspettano, fra tre o dieci anni. La corrispondenza amorosa dei carcerati (spesso fra detenuti e detenute) è il caso più commovente e malinconico di questo rincaro.