La frontiera entra a pieno titolo nel quid dell’esistenza e nell’architettura di Mario Botta. Nella sua forma mentis c’è quella “svizzeritudine” in cui il limite si confronta con l’infinito della condizione umana e la dimensione locale porta ai confini del mondo globale. Questo sguardo acuto si ritrova negli scritti raccolti in “Quasi un diario” 2003-2013 di Mario Botta, edito da Le Lettere nella collana Atelier, diretta da Stefano Crespi. Il libro racchiude interessanti riflessioni sull’architettura, sull’arte, sulla letteratura e testimonianze di incontri, schizzi e disegni che sono la migliore sintesi del pensiero del maestro che vive e lavora a Mendrisio.
In questo mondo globale, caratterizzato dalla concorrenza spietata, devi sapere quale è la tua dimensione. Cerco di fare bene il mio lavoro come un artigiano. Non ho l’aspirazione di lavorare oltre misura e di invadere i mercati. Ho imparato da Cicci Castiglioni che diceva che il nostro lavoro è pagato dal lavoro ben fatto.
La condizione di frontiera dà il privilegio di vedere il tuo mondo con un certo distacco e di capire meglio la realtà dell’Europa e dei Paesi vicini. Questo gioca a favore in un momento storico dove da un lato sei obbligato a vivere la globalizzazione e dall’altro a godere dei privilegi della realtà locale.
Si traduce in una partecipazione forte ad una Heimat, ad una patria e ad una cultura, che ha molte variazioni date dallo sguardo di ognuno che passa attraverso il proprio mondo. Varlin ad esempio vive dell’aneddoto, dipinge i diseredati e le macchiette del paese, e più di altri fa del locale il suo anticorpo per vivere il globale. Trovo straordinari i suoi scritti sui bassifondi di Napoli.
Per il drammaturgo ho progettato il centro a Neuchâtel che ospita anche i suoi dipinti mentre per sua moglie ho disegnato la seggiolina Charlotte. Dürrenmatt diceva: “Dipingo per le stesse ragioni per cui scrivo, perché penso”. Infatti i suoi dipinti sono metafore e aforismi. L’ultima volta che l’ho incontrato voleva sapere cosa pensavo della commedia “La valle del caos” che era stata stroncata della critica tedesca e considerava il suo testamento spirituale. Dürrenmatt aveva un successo mondiale, ma avvertiva il bisogno di un consenso che la Svizzera gli dava raramente.
Nell’area prealpina, dove le valli, le montagne e le pareti si confrontano con il fondovalle o con i laghi, il paesaggio diventa già un’architettura più ampia. Carlo Dossi, nelle sue “Note Azzurre”, ricorda che il carattere dominante delle architetture è dato dal contesto che colpisce l’occhio dell’artista. Leonardo si è confrontato con il paesaggio e il genius loci della Lombardia. Francesco Borromini, che partì da Bissone giovanissimo per trovare il successo a Roma, ha visto le stesse montagne e lo stesso lago che io vedo secoli dopo. Il territorio e il paesaggio, così come la memoria, sono fatti portanti della creatività.
Ho un rifiuto per il computer e disegno tutto a matita. I miei collaboratori stampano i progetti che poi correggo necessariamente su un piano orizzontale. Il disegno è una lingua, mi aiuta a pensare, è un prolungamento della mente prima che del braccio.
Lo spazio del sacro è interessante perché in una società secolarizzata si pone al di fuori degli interessi dominanti perciò stupisce la continua richiesta di chiese. Si tratta dello spazio del non finito che va oltre il finito, oltre il mistero, che va al di là della domanda tecnica funzionale e quindi tocca le forme espressive più sensibili; della soglia, della luce, della gravità… Queste ragioni fanno sì che se potessi scegliere, oggi farei solo chiese.
Oscar Niemayer, come diceva Le Corbusier, aveva l’immensità delle montagne negli occhi, oltre ad una straordinaria forza plastica e capacità di sintesi. Tra gli incontri più vicini ci sono Enrico Della Torre, Giancarlo Vitali, Velasco e Mimmo Paladino che si muovono all’interno di un territorio comune e vedono l’arte come una necessità per affermare il senso dell’esistere.
Assaporo attimi di felicità e momenti di grazia quando trovo una soluzione che mi sembra sublime. Il processo creativo dà una grande gioia di vivere. È l’ottimismo del fare che non è critico. Nel mio caso costruire porta con sé un’accezione positiva perché puoi solo costruire per e non contro-
Nel libro lei è molto critico nei confronti degli Stati Uniti dove ha lavorato…
Non mi piace questo loro misurare tutto in valori di business e di dollari. Nella vecchia Europa trovi l’uomo.
In Cina stanno uscendo dal Medioevo e mi ritrovo di fronte ad un mondo simile al nostro del dopoguerra. Ci sono anche gli speculatori capitalisti, ma si avverte una spinta sociale collettiva che noi abbiamo totalmente perso.
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