Il suo nome è parte della leggenda del grande basket varesino, tanto presente nella storia biancorossa quanto distante, oggi, dalla realtà e dal quel palcoscenico che gli hanno regalato gloria. Dodo Rusconi: la maglia della grande Ignis per sempre cucita sulla pelle e una carriera da allenatore più volte passata per Masnago, per quella panchina sulla quale oggi siede Gianmarco Pozzecco. Già, il Poz: una sorpresa scoprire dalle sue dichiarazioni come il coach di un tempo – non amatissimo a essere onesti – possa essere considerato oggi un modello. O addirittura qualcosa di più: «Io e Cecco siamo uniti da una venerazione sincera per Dodo e il suo basket». Parole rilasciate al nostro quotidiano, nell’intervista pubblicata ieri. Parole che hanno stupito.
In realtà, mi erano già state riportate di recente parole di apprezzamento nei miei confronti da parte di Pozzecco.
Mi fa piacere sapere, a distanza di tanti anni, che il mio lavoro è ricordato e apprezzato. La mia era un’idea di basket semplice, lineare, e rendersi conto che quel messaggio è stato compreso è importante, perché la prima cosa, per un allenatore, è farsi capire.
Anche a me, quando giocavo, capitava di non capire talvolta motivazioni e atteggiamenti degli allenatori. Finché non sono diventato allenatore a mia volta.
Io non ho mai avuto problemi con Pozzecco. Forse lui ne aveva qualcuno con me.
Gianmarco era innamorato della palla, tanto da trascurare i compagni, e a me qualche volta capitava di dovergli ricordare che la pallacanestro è un gioco di squadra.
Non ci vediamo da alcuni anni, ma posso dire che Gianmarco è una persona che conosce il basket da dentro e ha ottime possibilità di fare bene. E non lo dico perché influenzato dall’intervista che vi ha appena rilasciato.
Secondo me sì. Come allenatore, Pozzecco dovrà essere in grado di prendere qualcosa da tutti i tecnici che ha avuto, ma poi dovrà soprattutto fare cose sue, cose in cui crede.
L’ultima volta che ho assistito a una partita si trattava proprio di una sfida con i brianzoli.
Nell’anno della retrocessione (il 2007-2008, ndr). Quella volta la squadra era chiamata a un’impresa disperata e doveva dare tutto per tentare ancora di salvarsi. Invece vidi poco impegno e decisi che mi poteva bastare così.
Perché sul campo bisogna sputare il sangue: questo è quello che conta. Poco importa poi se gli altri sono più ricchi e di conseguenza vincono.
Per i giocatori, assolutamente no. Una volta con la maglia di Varese giocava gente di Varese e lo stesso succedeva per Cantù. Oggi non esiste più alcun attaccamento alla maglia, i giocatori cambiano squadra ogni anno e il derby diventa inevitabilmente una partita come tutte le altre.
Vero. La gente l’atmosfera particolare la sente e la vive ancora. Ed è per questo che mi auguro che Varese possa lottare come faceva non solo nell’epoca d’oro, ma anche in periodi più recenti, come nell’anno dell’ultimo scudetto.
Il basket mi piace sempre. Dipende però dal tipo di spettacolo che viene offerto. L’ultima partita – ed è passato ormai qualche anno – l’ho vista in Svizzera.
Il gioco di oggi è pick & roll e basta. Il resto è tutto fisico e poca tecnica. Io voglio vedere gente che lotta su ogni pallone. Ed è esattamente quello che manca.
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