– “Studente, chirurgo, rettore” e come tale in grado di fornire consigli a tutte e tre le categorie: «Ai primi dico di scegliere e progettare il loro futuro per tempo, ai secondi di trovarsi dei maestri per imparare bene questa affascinante professione, agli ultimi di non avere la pretesa di fare tutto da soli ma l’umiltà di cercarsi buoni collaboratori».
Alla festa del laureato in medicina 2015 l’intervento di – professore, chirurgo e rettore dell’università dell’Insubria fino al 2012 – è stato appassionato, ironico, interessante e estremamente godibile.
I settanta neodottori varesini nella scienza di Ippocrate non potevano trovare augurio migliore al loro futuro in camice bianco: quella di Dionigi è stata una lectio magistralis in chiave autobiografica, il racconto di una vita da amante del proprio lavoro, l’epopea di un giovane studente diventato rinomato professionista esempio di costanza e passione. Che, come da copione, è sbocciata per caso.
«Era il 1956 – ha esordito Dionigi – e mio padre venne ricoverato d’urgenza all’ospedale Niguarda di Milano. I medici dissero che si trattava di un’occlusione allo stomaco. Arrivò il chirurgo e con fermezza esclamò: “Tutti in sala operatoria”. In quel momento capì che non avrei fatto né l’architetto, né il filosofo».
Per diventare realtà l’intento passa dall’Università di Pavia. E da un inizio difficile: «Tra tanti professori stravaganti, il più cattivo era un certo Palumbo che insegnava Anatomia. Entrava in aula dopo i suoi assistenti e non ne usciva prima di avere ottenuto un applauso: bocciava tutti dalle cinque alle sette volte». Il giovane Renzo si laurea nel 1965 ed entra in Patologia Chirurgica: «In quel frangente conobbi il mio maestro, ma i primi mesi li passai a pulire i vetrini». Nel 1967 vola negli Usa, mandato dallo stesso Campani per indottrinarsi sui trapianti, già una realtà in America ma sconosciuti in Italia: presso il Dipartimento di Chirurgia dell’Università di Cincinnati, Dionigi trascorre due anni (poi ci tornerà anche nel 1976), effettuando ricerche nel campo dell’immunobiologia chirurgica, diventando uno dei maggiori esperti internazionali della
materia e conoscendo la futura moglie Janet Mary Hesselbrock.Dopo essere diventato professore associato nel 1980 (e ordinario nel 1982), il suo destino si intreccia improvvisamente con quello della Città Giardino: «Mi dissero di venire a Varese per dare una mano alla divisione chirurgica universitaria. Qui c’era tanto da fare: mancavano le nuove tecnologie e i problemi da risolvere erano molti. Io e i miei colleghi dormivamo nel sacco a pelo in ospedale: volevamo essere sempre presenti». E far crescere Varese, in piena pulsione “indipendentista” da Pavia: nel 1993 nasce una vera facoltà di medicina e Dionigi ne diviene preside. Ma non basta. «La città voleva la propria università. Non fu semplice staccarci dai pavesi, ma con l’aiuto anche del ministro Berlinguer, che tanto premeva per creare nuovi atenei, realizzammo l’intento nel 1998».
Con una promessa fatta allo stesso Berlinguer: «Ci chiese di metterci con Como e di trovare un nome che unisse e non dividesse. Mi misi a scartabellare le carte e proposi “Insubria”».
La storia del rettore Renzo Dionigi e dell’università cittadina a questo punto diventa recente, tra un fundraising matto e disperatissimo e uno sviluppo andato perfino oltre le più rosee previsioni.
Dai 70 neolaureati e dai 15 medici festeggiati per il loro cinquantesimo professionale (organizzato dall’Ordine dei Medici di Varese alla presenza del presidente Roberto Stella e del professor Simone Vender, presidente della Scuola di Medicina)scatta l’applauso. Sentito e inevitabile.