Le ere di Kristjan, il calvario senza fine di Luca. Due addii scontati, ma per nulla banali

Il commento di Fabio Gandini

Due addii scontati, ma non banali. Non assimilabili, quantomeno, a quelli che passano sugli schermi di tifosi e addetti ai lavori al crepuscolo di ogni stagione, sul palco di un basket che non contempla più compagnie stabili.

Né Kristjan Kangur, né Luca Campani, per ragioni diverse, sono paragonabili a quegli attori che planano come meteore attraversando il cielo ad agosto per scomparire dall’orizzonte qualche mese dopo, che abbiano fatto bene o male poco importa: la scia, stavolta, è uno strascico di sostanza comunque vera (tanta o poca che sia), di gratitudine, quasi di appartenenza, fuse insieme al rimpianto e a un forte senso di incompiuto.

Il pensiero che saluta l’estone dagli occhi di ghiaccio accarezza necessariamente contesti temporali diversi. Vede un non più giovane giocatore prelevato nell’estate 2010 dalle fila della Virtus Bologna, squadra che lo aveva portato in Italia qualche mese prima, conquistare Masnago con il suo talento intelligente, con un fisico massiccio ma agile, con la difesa, con quella completezza tecnica che non era riuscita a convincere i grandi club europei (Asvel Villeurbanne in primis), ma che calzava a pennello per il genuino entusiasmo locale e per il basket italiano.

Poi vede quello stesso talento, non più celabile nel piccolo cabotaggio delle Prealpi, spiccare il volo verso le corti più rinomate dell’epoca, prima Siena e poi Milano: due scudetti consecutivi (ironia della sorte: il primo avrebbe potuto toglierglielo proprio la Varese che aveva abbandonato…), altrettanti infortuni, malauguratamente in grado di deviare la sua parabola. Malauguratamente per tanti, ma non per chi era pronto a riaccoglierlo a braccia aperte, per poi scoprirlo irrimediabilmente diverso, difettato, prone alla rottura fisica (evenienza che si verificherà con puntualità giapponese), delicato, limitato, a tratti inservibile, sicuramente condizionante. Eppure ancora maledettamente intelligente. Talmente intelligente da insegnare basket pur caracollando per il parquet con un tronco di legno al posto della schiena: attimi, sempre più fugaci, ma intensi. La prova provata sono gli ultimi mesi della stagione scorsa: andato via chi gli aveva cucito malamente addosso 25 minuti a partita due volte alla settimana, da rincalzo di Ferrero l’estone è tornato a lanciare bagliori intermittenti ma sempre poetici, almeno per chi ama la razionalità applicata alla pallacanestro.

Lascia Varese una persona tosta, dura, forse anche un po’ chiusa. Lascia Varese un lavoratore encomiabile, uno straniero capace di sposare anche la città e il suo vivere, non solo i colori cestistici. Lascia Varese un giocatore che avrebbe voluto rimanervi ancora, attaccato ai bagliori di cui sopra e alla familiarità di un luogo diventato una sorta di seconda casa, senza sapere che – presto, forse prestissimo – il buio pesto avrebbe preso definitivamente il sopravvento.

Luca Campani, oltre a essere un altro addio necessario, è un incompiuta che fa male, malissimo. E’ un flashback su vicissitudini continue, su un calvario fisico senza Golgota, su un atleta nel fiore della gioventù inzigato dalla sorte e impossibilitato a esprimere tutta la sua potenziale grandezza. Quaranta partite saltate in due anni. Operazioni, sparizioni dal radar, silenzi, lenti recuperi. Nuove operazioni, silenzi, sparizioni dal radar. Silenzi ancora. Perché parlare di lui, scrivere di lui, informare su di lui diventava quasi indelicato, perché andava a invadere quanto di più riservato e intoccabile esista nella sfera di ogni uomo: la salute.

Campani è arrivato nella Città Giardino insieme a Cavaliero e Ferrero due anni fa, nel gruppo dei “finalmente qualche italiano da mettere in campo”. E’ arrivato con il codazzo di aspettative alte, ben riposte anche con il senno di poi inquinato dal destino. Perché uno così non lo trovi facilmente: su quell’atletismo condizionato e a volte un po’ pigro, Dio ha installato due mani da Re Mida, invidiabili da un piccolo, figuriamoci da un lungo. La resurrezione della prima Varese di Paolo Moretti non è solo Wright e un Kuksiks sentenza dall’arco: è anche sua. Del Campani sano che ti apre l’area con il tiro mortifero, del Campani sano che non sai come marcare perché ti può far male in mille modi diversi. I playoff sfiorati sono anche suoi e del suo miglior momento in 730 giorni trascorsi sotto al Sacro Monte. Chalon è sua. Quella coppa sfiorata è sua. E sua (meglio: della sua assenza), è anche parte delle disgrazie dell’autunno 2016, culminate con l’esonero del coach toscano.

L’addio a Luca – che ha sempre cercato di opporre un sorriso ai no della fortuna – può allora essere solo il più grande e sentito degli in bocca al lupo.