La rivolta della gente alle minestre riscaldate dai partiti

L’editoriale di Andrea Aliverti

Cosa ci insegnano le primarie del centrodestra di Busto Arsizio? Che la gente non è più disposta ad accettare la solita minestra preparata dai partiti. Gli elettori vogliono scegliere, e in questo senso l’esperimento di Busto Arsizio potrebbe rappresentare un laboratorio interessante per un centrodestra in crisi d’identità.Parlare di “fine di un’epoca” rischia sempre di apparire fin troppo tranchant, ma è quella di aver assistito ad un momento di svolta importante, per chi lo vorrà cogliere,

l’impressione che emerge da una consultazione popolare che, pur essendo stata organizzata in fretta e furia e in quasi totale autonomia dalle segreterie locali, ha portato 3.750 persone ad esprimere liberamente il proprio voto, oltretutto nell’ambito di uno schieramento che aveva sempre, forse fin troppo superficialmente, guardato con sufficienza allo strumento delle primarie. Che sia la fine dell’epoca delle decisioni calate dall’alto? Le code per votare al Museo del Tessile di Busto ci fanno capire che la gente vuole dire la propria, che non è più disposta a delegare tutto ai partiti e a digerire le minestre preparate nelle segreterie in base a mere logiche di potere. Quello che è successo a Busto è una riscossa contro la cosiddetta “antipolitica”: è un volersi riappropriare, con la forza dell’espressione democratica, della possibilità di dettare l’agenda ad una politica che appare sempre più distante dalla realtà vissuta dalle persone comuni.Persino lo stesso Matteo Salvini, che sembra essere uno degli ultimi leader ancora a proprio agio nelle piazze, non è riuscito a dare quella spinta che serviva alla candidata della Lega bustocca Paola Reguzzoni. Non è colpa di Salvini, piuttosto ci si dovrebbe rendere conto che sul territorio le logiche dell’appartenenza, ormai scardinate a tutti i livelli, valgono poco o nulla. Del resto, paradossalmente, anche un candidato così popolare come Daniele Marantelli, alle primarie del centrosinistra di Varese, a conti fatti non ha beneficiato granché delle presenze illustri giunte a sostenere la sua campagna, mentre Davide Galimberti batteva palmo a palmo da settimane il territorio con il vecchio “porta a porta”. È evidente come ormai la presa dei partiti sia sempre meno decisiva: veniamo da un’era in cui Silvio Berlusconi e Umberto Bossi si spartivano, seduti ad un tavolo di Arcore, città, province, parlamentari, mettendo sul piatto degli elettori una serie di candidati che sembravano presi da un album di figurine. Ora, nell’epoca della sfiducia e del disamoramento nei confronti della politica dei partiti, questa logica della rappresentanza decisa dall’alto non funziona più. Contano le persone e la loro credibilità. Ed è tutt’altro che casuale il fatto che a Busto Arsizio sia stata premiata una figura come Emanuele Antonelli, che più che civico ha sempre rivendicato di essere un politico (con un proprio lavoro) rimasto senza tessera, uno di quelli fuori dal “giro che conta” che difficilmente potrebbe essere incasellato. Ma attenzione: per poter davvero parlare di “fine di un’epoca” occorrerà aspettare giugno. Perché un conto sono le primarie, che richiamano al voto quella parte interessata, informata e partecipe alla vita della comunità, altro discorso saranno le elezioni vere e proprie, quando andrà a votare anche chi, pur risiedendo a Varese, Busto e Gallarate, non “mastica” la città e i suoi protagonisti ma si lascia influenzare più dai battibecchi dei talk show e dal clima generale del momento.