Nel nome di Superga

16 maggio 1976 - Romano Cazzaniga, ex Pro Patria, racconta emozioni e segreti di una squadra da leggenda: «Dopo la vittoria la gente saliva sulla collina piangendo di gioia e ci abbracciava. Non lo dimenticherò mai»

Erano le 16 del 16 maggio 1976 quando la suadente voce di Roberto Bortoluzzi dallo studio centrale di Tutto il Calcio Minuto per Minuto diede la linea a quella rapida come un fendente di Enrico Ameri al Comunale di Torino per raccontare l’ultima partita di campionato fra il Toro ed il Cesena. Valeva lo scudetto per i granata (il settimo) a digiuno dal 1949: l’ultimo lo aveva conquistato il Grande Torino che perì a Superga.
Nell’annunciare

la formazione granata, Ameri quasi la solfeggiò con la musicalità di quella cantilena che faceva: Castellini, Santin, Salvadori; Patrizio Sala, Mozzini, Caporale; Claudio Sala, Pecci, Graziani; Zaccarelli, Pulici. Allenatore Radice. Allora non usava elencare i nomi dei giocatori in panchina, ma questi c’erano eccome. E fra questi, in quel Torino, sedeva Romano Cazzaniga, portiere di riserva ed indimenticato guardiano della Pro Patria dal 1966 al ’69. Era accanto a Radice, del quale divenne il più stretto collaboratore quando abbandonò i guantoni.
Sono ancora vivi quei momenti, quel pomeriggio, nonostante siano trascorsi quarantanni; la voce di Cazzaniga vive ancora l’emozione e più di una volta il racconto s’interrompe. Con pudore cerca di mascherare la lacrime, ma l’emotività è coinvolgente anche per chi ascolta.

«Non c’era nulla di programmato in quello scudetto – esordisce l’ex numero dodici granata – avevamo iniziato bene il campionato e la partita che ci diede la sensazione che avremmo potuto giocare un campionato d’avanguardia fu la vittoria contro l’Inter. Non che potevamo vincere lo scudetto: questo no. Però in tutti noi ci fu molta convinzione. Fu però dura giocare punto a punto con la Juventus, ma vincere quello scudetto sulla rivale delle tua città è stato impagabile. E poi dalla mia avevo la soddisfazione di aver giocato e vinto il derby di ritorno al posto di Castellini, infortunato».

«Eravamo un gruppo di amici, ci trovavamo spesso anche al lunedì, per il gusto di stare insieme. Va anche detto che allora non era difficile fare gruppo perché, al massimo eravamo in diciassette o diciotto, non come ora con le rose delle squadre che sono di venticinque. Ci si conosceva tutti e ci si aiutava. E poi durante i ritiri si stava insieme a giocare a carte o chiacchierare. Adesso invece ognuno va per i fatti i suoi in camera davanti al computer o a chattare».

«Un innovatore. Quel Torino giocava un calcio che era all’avanguardia: pressing e fuorigioco. Chi lo faceva in quegli anni? Dirò di più: con Gigi quel calcio lo si faceva già a Monza nel ’69 in serie B e quelle sue idee poi le ha portate al Torino. Ed abbiamo ancora giocato meglio l’anno dopo quando perdemmo lo scudetto per un punto sulla Juve. Gigi non era reclamizzato. Se avesse avuto la fortuna di un presidente con giornali e televisioni le sue innovazioni sarebbero state conosciute molti anni prima. E Radice non era un sergente di ferro. Un’etichetta sbagliatissima. Era esigente in campo, ma fuori lasciava fare. Se qualcuno andava a dirgli che qualcuno era rientrato alle due di notte, a lui importava che sul campo corresse comunque».

«Non sei scaramantico, ma poi lo diventi. Noi avevamo la sede del ritiro a Villa Sassi e, per andare al Comunale, passavamo davanti allo zoo. Se il leone era fuori allora eravamo sicuri che avremmo vinto se non lo vedevamo, fermavamo il pullman e aspettavamo che il leone si facesse vedere».
«Una volta fuori arrivavamo allo stadio più contenti. Ero in camera con Castellini ed il giaguaro faceva sempre la barba all’una di notte del sabato».

«Non dimenticherò mai la nostra gente che saliva a piedi – singhiozza Cazzaniga – a Superga per rendere omaggio al Grande Torino, quasi per sciogliere un voto. Ci fermava, ci abbracciava, piangeva di gioia. E’ stata un’emozione incredibile ed ancora mi viene la pelle d’oca per quei momenti perché ci rendemmo conto di quanto di bello avevamo fatto per loro».