«Quegli anni meravigliosi con il Peo. Quando il calcio era fango e poesia»

Quattro anni senza Maroso. Il 16 settembre 2012 se ne andava una leggenda

Le due agendine rosse che Virgilio Maroso stringe in mano sembrano nuove. Le copertine, in finta pelle, sono perfette se non per un taglietto sulla spalla di una, dove inciso in oro si legge 1973-1974, e 1974-1975.

«Queste le dovete guardare. Hanno un significato speciale», dice lui mentre passa quelle due agende, senza spiegare nulla. Dentro ci sono tutti gli articoli di giornale, ritagliati con una cura quasi maniacale, usciti in quelle stagioni, sul Varese. «Sono le agendine di mio papà Peo, in cui conservava tutto quello che veniva scritto sulla sua squadra. Penso che prima di oggi non le abbia viste nessuno al di fuori di noi familiari, perché quando era ancora vivo non le potevamo toccare nemmeno noi o s’incazzava».

Seduti ad un tavolo del ristorante di Silvano Bossi in viale Borri, il Cuor di Sasso, oltre a Virgilio, ci sono Enzo Rosa, Ernestino Ramella e Mimmo Calcagno, intenti a stappare una bottiglia di Bonarda. «Un brindisi, il primo, va al Peo. Alla sua memoria», attacca Enzo; ci si ritrova tutti lì per quello, per ricordare, a quattro anni dalla sua scomparsa, l’uomo che più di ogni altro ha rappresentato e rappresenterà lo spirito del Varese.

«Raccontava mio papà che nel precampionato dell’anno ’73-’74, quello della vittoria in B, persero 6-0 in un’amichevole contro una squadra di D, e il patron Borghi preoccupato gli chiese spiegazioni. Mio padre rispose di stare tranquillo, che tanto sarebbero andati in A. Il patron esclamo: “Te lo firmo ora, nero su bianco: se andiamo in A ti regalo la BMW”. La mattina dopo l’ultima di campionato, mio padre si presentò nell’ufficio di Borghi. Qualche giorno appresso girava su una BMW azzurrina», racconta Virgilio con un sorriso.

Quello che diceva Peo, era legge. Una legge da cui non si poteva scappare, perché aveva la forza del cuore e della ragione. «Tuo papà – attacca a dire Ramella – mi ha fatto esordire contro la Spal, a 17 anni. Ricordo che la settimana dopo ero influenzato, e non volevo giocare, ma il Peo venne a prendermi di peso e mi fece allenare lo stesso. Tanto non gli si poteva dire o ribattere nulla, una volta che aveva deciso: con la sua voce, la sua stazza e la sua storia, ti incuteva un certo timore. Così, nel secondo tempo della partita dopo, quella contro il Brescia, mi buttò in campo e segnai il mio primo gol in carriera. Andai in rete con un tuffo di testa».

«Ti ha scovato il Peo, quindi?», gli chiede Rosa. «Nel ’69 il Milan era interessato a me, e avevano proposto 300mila lire a mio papà per avermi. Poco tempo dopo, si presentarono Maroso e Sogliano, offrendo alla mia famiglia addirittura un milione: mi volevano a tutti i costi Mio padre, conoscendo la mia poca voglia di studiare, mi mandò a giocare nel Varese. In quegli anni lì, il calcio era tutta un’altra storia…»

«A partire dagli allenamenti – lo interrompe Enzo Rosa -: il Peo vi faceva uscire dal campetto dell’anti-stadio tutti sporchi di fango. E lui, invece, stava lì a urlarvi ordini come se fosse un generale dei marines: mani dietro la schiena e gambe divaricate. Ricordo anche la villa in cui risiedevate voi calciatori: lì davanti lavoravano la Wanda e la Luisa (due prostitute, ndr.)…» «Da lì scappavi sempre, Ernestino», si inserisce Virgilio Maroso.

«Il Peo era un generale. Un giorno andò addirittura dalla Wanda e dalla Luisa, e gli disse che se proprio dovevano battere, che lo facessero davanti alla nostra villa, quella di via De Cristoforis, così da tenerci d’occhio. Loro presero sul serio la cosa, e ci controllavano: non potevamo manco fumare una sigaretta senza che il Peo lo venisse a sapere», racconta tra una risata e l’altra Ernestino Ramella. Enzo Rosa tira fuori un libro di foto sul Varese: ogni pagina, è un ricordo. «Quando allenava in C2 (stagione ’86-’87, ndr.), c’era Claudio Fadoni in porta. Mio padre un giorno gli disse: “Sei talmente scarso che ti segno pure a piedi nudi”. Lui insaccò in rete un rigore senza scarpe, ma si ruppe l’alluce del piede», attacca Virgilio.

«Peo, aveva quei numeri lì – continua Ramella -. Una volta andammo a giocare nella Lomellina: era pieno di zanzare, e tutti erano intenti a sventagliare i fazzoletti per scacciarle. Lui disse col suo fare: “Ma di che avete paura, delle zanzare?”, e si mise a petto nudo, come quando giocava nella neve d’inverno. Dopo pochi minuti aveva talmente tante punture addosso che dovette essere portato in ospedale. Sfidava tutto e tutti, il Peo. Sfidava i presidenti,

il calcio e pure il destino: la sua grinta non l’aveva nessuno. Ricordo che nel campionato ’75-’76, a tre giornate dal termine, eravamo dietro di due punti rispetto al Catanzaro. La partita prima di ospitarli in casa, la perdemmo 3-0 ad Avellino. Io, in quella fatidica settimana rientravo dal militare, e ricordo che non trovai nessuno all’allenamento: il Peo, dopo quella sconfitta e prima della partita decisiva, aveva dato ai giocatori 5 giorni di riposo. Contro il Catanzaro vincemmo 1-0, anche se non bastò poi a regalarci la A (Quell’anno il campionato finì con Genoa, Catanzaro e Foggia promosse e appaiate a 45 punti, mentre il Varese finì quarto a 44 lunghezze, ndr.). Ditemi voi quale altro allenatore avrebbe fatto una cosa del genere? Il Peo, era il Peo. E basta».