Quel “pittore” con la camicia bianca Regala un racconto con ogni scatto

Wim Wenders, ieri a villa Panza per presentare la mostra “America”, raccontato da Mario Chiodetti

– Per un’intera generazione, Damiel, l’angelo che osserva i berlinesi dall’alto della Kaiser Wilhelm Gedächtniskirche violentata dai bombardamenti, ha rappresentato un brano d’inarrivabile poesia per immagini, un canto sospeso su un mondo in rapida dissoluzione.

Con “Il cielo sopra Berlino” il cinema parlava un linguaggio nuovo, fatto di silenzi e riflessioni, di sentimenti espressi con sfumature di colore, di solitudini e lunghi viaggi interiori.
Per questo, vedere Wim Wenders nella sala del Canonica di villa Panza è stato come se Damiel fosse di nuovo sceso tra i mortali, per osservarli da vicino e fotografare i loro paesaggi, i luoghi dell’essere e del divenire, i vasti orizzonti del sogno americano che pure il formato “king size” delle stampe non riesce a contenere.
Immagini che sembrano appese da sempre alle pareti della villa, tra le opere dei maestri che Giuseppe Panza raccolse peregrinando negli States dal 1954 in poi, fotografie dai colori spesso insolenti che turbarono il loro autore abituato ai chiaroscuri europei, spezzoni di un viaggio infinito tuttora in corso, forse sedute di auto analisi in cui Wenders ha fatto emergere la sua antica passione per la pittura unita a quella per un solitario “wandering”.
Per questo “America”, visibile a villa Panza fino al 29 marzo (orari: tutti i giorni, tranne i lunedì non festivi, 10-18) più che una mostra è una confessione, un lungo soliloquio ad alta voce che ci rende partecipi di un’infinita curiosità e di un’inesausta voglia di sperimentare, nel tempo più lento della fotografia rispetto a quello cinematografico. E Wenders ha, di fatto, le sembianze di un pittore, con la camicia bianca, dal colletto a punta, rigorosamente chiusa, la giacca destrutturata e gli occhiali dalla montatura blu cobalto, il ciuffo grigio che indugia sull’occhio destro come l’onda sullo scoglio.
La voce è bassa e l’eloquio lento e studiato, ma le parole affondano, e a loro volta dipingono scenari apparentemente lontani, ma nella realtà quotidiani e facilmente indagabili da una coscienza che non sia superficiale. Una frase di Giuseppe Panza, ricordata dalla figlia, Maria Giuseppina, svela in parte l’origine delle fotografie di Wenders, il loro concepimento: «Le nuvole salgono nell’orizzonte non visibile. Il paesaggio tra luce e ombra, non ha forme grigie».
Nel forsennato agitarsi del colore o nello smagliante bianco e nero del formato Leica, infatti, gli scatti hanno un nitore assoluto, non portano compromessi, colgono l’essenziale, ciò che l’occhio del viaggiatore percepisce nello spingersi ogni volta “Bis ans Ende der Welt”, fino al termine del mondo.

Non a caso, Wim ha dedicato mostra e catalogo all’amico attore Dennis Hopper, a sua volta fotografo, pittore e scultore, ma soprattutto umano manifesto del viaggiare con la fantasia, e di un altro Hopper, Edward, tra i più grandi artisti americani del ‘900, nelle 34 fotografie esposte ci sono spesso citazioni, come nella splendida “Night hawks setting”, scattata a Los Angeles nel 1997.
«Espongo le emozioni che ho vissuto, le fotografie sono stampate in dimensioni diverse: in quelle più grandi conduco lo spettatore nel luogo ritratto, vorrei che percepisse le stesse mie impressioni. È un privilegio per me fare questa mostra a villa Panza, e mi meraviglia vedere così tanta gente, mi aspettavo dieci persone al massimo», ha esordito l’autore di “Paris Texas” e “Buena Vista Social Club”, entrati ormai nella storia del cinema.
«Ciò che mi spinge nel mio lavoro di fotografo, è il senso del luogo, il soffermarmi ad ascoltare ciò che un posto mi vuole raccontare, e più è deserto meglio sa parlare. È una qualità che peraltro tutti possediamo, un tempo, infatti, conoscevamo meglio e più da vicino il luogo in cui vivevamo, se non altro per una questione di stretta sopravvivenza. Oggi le nuove tecnologie ce lo rendono più distante, ma a plasmarci sono le architetture che abbiamo costruito».
Wenders fotografa sempre in assoluta solitudine: «Salgado, per esempio, ritrae persone, popoli, io ho sempre scelto il paesaggio, non perché sia un fotografo naturalista, ma proprio per ciò che mi trasmette, e a volte è la distanza a consentire il dialogo con le cose».
«Quando fotografo sono “vuoto”, spetta a ciò che mi circonda riempirmi di sensazioni. I miei scatti sono stati realizzati con una macchina analogica e la pellicola e non manipolate, ciò che è qui stampato è esattamente quello che ho visto. Oggi con la tecnologia digitale, di cui peraltro mi servo nei miei film, tutto appare bello e troppi fotografi stravolgono ciò che hanno visto intervenendo sull’immagine».
Una Leica M per il bianco e nero, una Plaubel Makina e una Fuji panoramica per il colore sono gli strumenti utilizzati dal regista nel suo dialogo intimo con il mondo esterno, che affronta sempre «con un pizzico di modestia».

«Siamo convinti di poter controllare ogni cosa, ma la vera religiosità sta nel non considerarci creatori di tutto. Per me l’America ha rappresentato ciò che è stato per molti negli anni ’50 e ’60, un sogno, una sorta di terra promessa. Ci ho vissuto per vent’anni, curioso di ogni cosa, perché la curiosità è la base della cultura».
«Gli europei hanno bisogno di confrontare la loro con quella americana, per sentire poi ancora più forte il senso di appartenenza al nostro continente», ha spiegato Wenders, che ha avuto un forte imprinting dalla cultura italiana.
«Sulla scrivania ho tuttora una fotografia donatami da Luigi Ghirri, uno dei miei maestri. Ammiro il cinema italiano, quello di Antonioni, Pasolini e Bertolucci, amo la musica di Fabrizio De André e ho in mente da tempo di realizzare un documentario sui luoghi della sua musica. Un giorno, molto presto, lo farò».