«Tra noi e la verità pressioni di CL e silenzi assordanti»

Giorgio Paolillo, capo della Mobile all’epoca del delitto Macchi racconta dopo 30 anni il clima che circondò le indagini di allora: «Interrogammo un don e ci denunciarono per sequestro di persona»

«Da subito pensammo che quella lettera fosse stata scritta dall’assassino. La facemmo analizzare, ma non avevamo nulla con cui compararla». E ancora: «Non credemmo mai alla pista del maniaco, del bruto. Abbiamo sempre pensato che qualcuno nell’ambiente frequentato da Lidia sapesse. Ma ci scontrammo con silenzi assoluti. Ci furono pressioni. In particolare da parte di Comunione e Liberazione». Ci furono interrogazioni parlamentari dopo l’interrogatorio durato un giorno e una notte di . «Non soltanto: io e il pubblico ministero fummo denunciati per sequestro di persona alla procura di Brescia dagli alti prelati della curia milanese di allora dopo quell’interrogatorio iniziato alle 16 e terminato il mattino dopo di don Antonio e suoi tre confratelli».

Parla , dirigente della squadra mobile di Varese nel 1987, quando si consumò l’omicidio di , la scout ventenne studentessa di giurisprudenza violentata e uccisa il 5 gennaio del 1987 il cui cadavere fu ritrovato straziato da 29 coltellate a Cittiglio nei boschi del Sass Pinì. Parla e racconta le indagini sull’assassinio e il clima entro il quale gli inquirenti furono, gioco forza, costretti a muoversi.

Otto giorni fa per quell’omicidio consumato 29 anni fa è stato arrestato , 49 anni, amico di Lidia, giovane «intellettuale dall’aspetto maledetto» come lo descrivono gli amici di allora, che come Lidia frequentava gli ambienti di CL. Binda che si dichiara innocente «non fu mai tra i sospettati dell’inchiesta condotta 29 anni fa. Ma l’averlo collegato a quella lettera arrivata a casa Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali della ragazza, è un fatto estremamente importante».

, il padre di Lidia, si presentò in questura intorno alle 23. Poco prima delle 19 di quella sera, era un lunedì, la figlia era uscita di casa per andare a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio. Aveva detto che sarebbe rincasata per cena. Ma a quell’ora non era ancora tornata. Iniziammo le ricerche, ma di Lidia o della sua Fiat Panda non c’era traccia.

Il giorno prima, il 6 gennaio, ci fu comunicato che gli amici di Lidia ci avrebbero affiancati nelle ricerche. Fu una di queste “pattuglie civili” a trovare l’auto della ragazza. Erano le 10 circa. Mi trovavo in questura, davanti a me c’era Giorgio Macchi venuto a chiedere se vi fossero novità. Squillò il telefono: i miei mi dissero che era stato trovato il corpo della ragazza. Lidia era morta e io avevo suo padre davanti. Glielo dissi, non potevo certo sottrarmi. Poi restammo muti, davanti a questa cosa enorme. Il dolore era palpabile ed era anche mio.

Immediatamente. Lidia era sul terreno, con la pancia a contatto con il gelo. Vestita come il padre ci aveva detto. Il cappotto scuro, i jeans chiari. Era stata coperta con un grosso cartone recuperato lì intorno, perché ne trovammo altri simili. Pensammo a un gesto di rimorso, a una specie di pietà tardiva dell’assassino nei confronti di quella giovane vittima. C’eravamo noi e c’erano i carabinieri. E fu un carabiniere ad avvisarci che c’era un sacerdote, don Antonio, amico di Lidia, che voleva benedire la salma.

No. Fu un’indagine parallela. I carabinieri si concentrarono sulla pista del maniaco che a quanto pare aveva già molestato una donna nel posteggio dell’ospedale di Cittiglio. Anni dopo fu divulgata un’identikit che portò poi a , ma la pista si rivelò morta. Noi ci concentrammo sulla pista interna alla vita di Lidia. Non credemmo mai al bruto, allo sconosciuto che abusa di lei casualmente. C’era qualcosa di familiare in quel fatto, di personale. Poi trovammo quella lettera, una lettera della ragazza a un amore impossibile e pensammo a don Antonio. Alcuni lo indicavano come molto vicino alla ragazza. L’amore per un religioso è impossibile per definizione.

No, prima ci fu quella lettera. Quella arrivata il giorno dei funerali. Me la portò Giorgio. Il pm Abate la fece subito analizzare dai periti. Cercarono di tracciare un profilo dell’autore, con i mezzi dell’epoca. Non c’erano gli strumenti di oggi. Giorgio stesso mi disse che era convinto che quella lettera era stata scritta dall’assassino. I periti ci dissero che l’autore doveva essere un giovane uomo, che certamente aveva profonde conoscenze religiose. Che certamente conosceva Lidia.

Non subito. A don Antonio arrivammo per una questione di alibi e di coltello. Fu lui a dirci che ogni tanto portava un coltellino con sé. In quei giorni ascoltammo decine di persone. Tutti amici di Lidia. Amici milanesi, compagni di università, scout, ma soprattutto militanti di Comunione e Liberazione, l’ambiente che Lidia frequentava. Don Antonio fu ascoltato e ci disse che il 5 gennaio, quella sera, era in casa a preparare l’omelia per il giorno successivo. Sarebbe stata l’Epifania, una messa importante. Poi pochi giorni dopo cambiò versione. Ci disse che si trovava con altri tre religiosi. E decidemmo di ascoltarli.

Sì. Erano le 16 circa. Andammo avanti tutta la notte. I tre confratelli alla fine ammisero di aver confermato di essere con don Antonio non perché fosse vero, ma perché, in assoluta buona fede e di questo sono certo, non credevano fosse stato lui. Di fatto non fu mai indagato, ma li denunciammo per falsa testimonianza.

Sì. In quei mesi fu uccisa , giovane studentessa della Cattolica. Fu accoltellata. Contattammo il questore di Milano per un confronto. Loro avevano dei sospetti su un religioso milanese, ma i due casi non avevano attinenze. A quel punto, però, erano già iniziate le pressioni.

Sì, in particolare da parte del movimento di CL. Ci furono interrogazioni parlamentari. Io e il dottor Abate fummo denunciati per sequestro di persona a Brescia dopo quell’interrogatorio. E nessuno parlava. Cercavano tutti di allontanare le ipotesi delittuose dagli ambienti di CL.

Ad un certo punto iniziarono a parlare di messe sataniche. Anche l’allora sindaco di Varese, che era di CL, si prodigò in questa direzione. Noi siamo sempre stati convinti che qualcuno vicino a Lidia sapesse.

Sì. Li sentimmo tutti. Nessuno disse niente. A pelle abbiamo avuto sempre la sensazione che qualcuno sapesse. Non dico avesse ucciso, ma qualcosa sapesse. Ma non parlavano. Erano tutti in silenzio. Per farsi dare due informazioni dovevamo sudare le proverbiali sette camice.

Perché? Non lo sapremo mai. Non sapremo mai credo se quei ragazzi, tutti gravitanti nell’ambito di Comunione e Liberazioni, avevano ricevuto delle imbeccate da qualcuno. Sembrava, però, ci si adoperasse per allontanare tutto dal movimento. Forse in buona fede, forse perché nessuno credeva che in quell’ambiente qualcuno sapesse e allora bisognava tutelare il movimento stesso.

Lo sentimmo sicuramente. Come Sotgiu, il nome lo ricordo. Ma i dettagli di quegli interrogatori sono persi negli ultimi 30 anni. Ricordo la sensazione di aver compreso che qualcuno sapeva, ma sospetti precisi non ne avemmo mai. Non sapevamo neppure con certezza se il rapporto sessuale fosse avvenuto sotto costrizione. Ma credo di sì.

Per come Lidia ci è stata descritta dalla madre. Illibata, fu più volte sottolineato quest’aspetto. Una ragazza così, seria, sorretta da una fede non bigotta, così consapevole di se stessa mai secondo me si sarebbe concessa ad un uomo la prima volta in macchina, consumando un rapporto fugace e privo di significato. Non c’erano segni di violenza fisica sul corpo di Lidia, ma l’assassino avrebbe potuto minacciarla con il coltello. E costringerla.

Sì. Chiamò degli amici, ricostruimmo poi, per chiedere un passaggio sino all’ospedale di Cittiglio. I genitori erano a Santa Maria Maggiore e lei era senza auto. Andò anche a Casbeno per verificare gli orari dei treni. I genitori sarebbero dovuti tornare il giorno dopo. Invece rientrarono anticipatamente quella sera e lei potè usare l’auto. Un’auto senza benzina.

La macchina era in riserva. Il padre diede a Lidia 10 mila lire per fare carburante. Quella banconota la ritrovammo nella tasca della ragazza. Quando fu uccisa non si era ancora fermata a una stazione di servizio. Fu così che riuscimmo a stabilire che, in riserva, Lidia poteva aver percorso pochi chilometri. Da Varese all’ospedale di Cittiglio e poi sino al Sass Pinì. Ipotizzammo anche che il cadavere potesse essere stato spostato. Ma era impossibile da stabilire con certezza.

Un’auto di grossa cilindrata, sì ascoltammo la teste. Affiancò una macchina più piccola, forse una Panda, e forse qualcuno era salito, dall’auto più grande a quella più piccola. Ma la teste non fu in grado di identificare modelli o targhe.

Fu raccolto il liquido seminale di chi noi reputavamo essere l’assassino di Lidia. All’epoca non era come oggi. Quella quantità 29 anni fa non bastava per un confronto. Oggi sarebbe stato diverso. Faccio una premessa: ogni dieci anni alcuni dei reperti custoditi in tribunale, appartenenti a casi contro ignoti, come era quello di Lidia, vengono distrutti per ragioni di spazio. Non ci fu dolo a mio parere in quella decisione.

Diciamo che credo che quei particolari reperti forse avrebbe meritato un trattamento diverso. Perché oggi, a questo punto dell’indagine, avremmo una prova definitiva.

Il suo nome non emerse mai in modo significativo. Come del resto quello degli altri. Leggo di alibi ballerini, oggi. Dovrei vedere le carte odierne, ma all’epoca le posso assicurare che verificammo tutto e non emersero anomalie particolari. Ribadisco: lavorammo sempre in un clima di silenzi. Dove bisognava quasi alzare la voce per ottenere qualche risposta. Ci fu resistenza. E le giuro che, ancora oggi, non so spiegarmi il perché.

Non lo so. Sono passati 30 anni e dovrei vedere gli atti di oggi. Dovrei leggere le carte. Certo l’averlo collegato a quella lettera, quella che tutti, compreso il padre di Lidia, reputavamo scritta dall’assassino, è un fatto estremamente importante.