Doveva essere solo una partita di basket

L’editoriale di Fabio Gandini e Alberto Coriele da Molenbeek, la città belga dove sono nati molti dei terroristi della strage di Parigi

A metà di un caldo pomeriggio di luglio il cellulare squilla. Sullo schermo compare il numero di Alberto, compagno di avventure giornalistiche declinate alla pallacanestro, bravo e giovane collega, amico trovato sulla strada della vita: «Hai visto? Facciamo la Fiba Europe Cup!». La tentazione di rispondere a mo’ della leggenda Aldo Ossola («chissenefrega della coppa del nonno») viene temperata da varie ed eventuali considerazioni cestistiche di opportunità, ma soprattutto da un lampo che i neuroni acchiappano.

Un lampo che – nello stesso momento – passa anche nella mente di Alberto. Ci sovrapponiamo: «Che bello, ci possiamo fare qualche trasferta europea!».
È iniziata così l’avventura che ieri ha portato noi due – giornalisti alle prime armi ma pieni di una passione per questo lavoro che ci porta a sfidarne il destino incerto, i sacrifici e la gavetta lunga e difficile – al centro di una scena che in questo frangente temporale interessa il mondo intero. Il viaggio dalla cronaca locale e dall’amata Pallacanestro Varese alla Bruxelles dove si cercano i terroristi e dove i media impongono di respirare la paura è frutto di un caso. Di una decisione che ha immediatamente seguito il siparietto di cui sopra: tra Stoccolma, Szombathely (città dell’Ungheria) e Ostenda, le tre tappe del viaggio continentale della Openjobmetis, abbiamo optato per l’ultima. Detto fatto: volo a basso prezzo, ostello prenotato e accrediti per il match che si giocherà nella giornata di oggi. Le tappe di un sogno da cronisti in erba. Era settembre e la strage di Parigi albergava solo nei peggiori incubi, quelli che riportavano alla mente altri fatti tragici che hanno segnato l’esistenza degli ultimi nostri quindici anni.
129 morti e 352 feriti dopo, io e Fabio ci siamo ritrovati a mettere temporaneamente da parte una banale partita di pallacanestro e a scrivere di argomenti, angoli e prospettive che professionalmente non avremmo mai pensato di dover affrontare, o almeno non così presto e non in un ventoso giorno del novembre 2015. Siamo atterrati nella capitale belga e abbiamo provato a raccontarla durante un momento storico complesso, paradossale, avvalendoci delle nostre capacità e dei nostri occhi, senza la presunzione di spiegare, di trovare una soluzione, di sentirci superiori a chi è venuto qui con la nostra stessa motivazione ma senza l’ausilio del caso. Senza meriti particolari: abbiamo solo cercato di fare il nostro lavoro.
Consumando le suole delle scarpe attraversando il centro di Bruxelles, ammirando la bellezza maestosa della Grand Place ma anche la desolazione dei quartieri più periferici come l’ormai celebre Molenbeek. Abbiamo discusso e condiviso pensieri con giornalisti locali, con ristoratori italiani, con amici belgi, cercando di capire il diverso punto di vista di ognuno. Abbiamo ascoltato lo sfogo di chi non ce la fa più ad accettare la didascalia di terrorista solo perché musulmano, di chi grida a pieni polmoni la richiesta di non buttare tutto nel medesimo calderone.
Una sola giornata ci è bastata per capire molto, ma non per comprendere davvero. Alla fine, una semplice foto appesa sulle vetrate di una scuola nel quartiere di Molenbeek ci ha però spiattellato davanti un pezzo di verità, togliendoci paura e preoccupazione.
Oggi abbiamo fatto i giornalisti, niente di più, niente di meno. E pensare che doveva essere solo una partita di pallacanestro…


1. Quel simbolo della pace è un sorriso

2. Bilal, belga e musulmano: «Quelli sono dei bastardi»

3. Un punto interrogativo chiamato Molenbeek. Dove il terrore è di casa

4. La gente guarda avanti: «Bruxelles è tranquilla. Quel luogo è lontano»

L’editoriale: Doveva essere solo una partita di basket