La pensione a Varese? Conviene essere uomini

Quando si tratta di pensioni, a Varese conviene essere uomini. Basta questo per veder crescere il proprio conto in banca di 8mila euro.

A tanto ammonta infatti il gender gap, cioè la differenza di redditto in base al genere, tra i pensionati e le pensionate nel Varesotto. Secondo l’Istat il reddito medio di un varesino che abbia smesso di lavorare è di poco più di 23mila euro l’anno. Sotto l’altra metà del cielo, invece, si superano a malapena i 15mila.

La differenza è di 8.100 euro: fanno 623 euro in più al mese per gli uomini, tredicesima compresa. «Questa situazione nasce dalle caratteristiche del lavoro femminile, che spesso è precario o saltuario. E queste condizioni finiscono per ricadere sulla pensione», afferma , segretaria generale dello Spi-Cgil varesino.

Una «attività lavorativa discontinua» che si lega anche al fatto che «le donne si assumono in toto la cura dei figli piccoli e dei genitori anziani». E per questo magari chiedono il part-time o arrivano addirittura a licenziarsi per occuparsi dei familiari.

Ma dietro a queste differenze c’è anche qualcosa che ha che fare con i pregiudizi: dei 13mila pensionati d’oro varesini, anziani che prendono più di 3mila euro al mese, appena 2mila sono donne. Gli altri 11mila, invece, sono uomini.

«È difficilissimo che una donna assuma livelli dirigenziali, sia nel privato che nel pubblico», spiega la segretaria del Sindacato pensionati, «anche in quei settori in cui la forza lavoro è soprattutto femminile, come la sanità e la scuola».

Si tratta del glass ceiling, quel pavimento di cristallo che impedisce alle donne di fare carriera. Anche quando sono più preparate dei colleghi maschi.

Cambiare la disparità nelle pensioni è quasi impossibile. «Noi da tempo stiamo chiedendo una rivalutazione di quelle medio-basse», ricorda la responsabile dello Spi.

Misura che contribuirebbe a ridurre il gap, se si pensa che in provincia di Varese 4 dei 5 assegni previdenziali inferiori ai mille euro al mese sono intestati ad una donna.

La vera sfida, però, riguarda le pensionate di domani. Che già dovranno fare i conti, così come gli uomini, con il nuovo sistema contributivo che ridurrà del 30 per cento le pensioni rispetto agli importi attuali.

«Stiamo lavorando perché le cose cambino», afferma , membro del coordinamento provinciale del gruppo femminista “Se non ora quando”.

«Questa situazione è il risultato di una società, che speriamo sia un po’ diversa da quella attuale, in cui il lavoro femminile era considerato di serie B», prosegue l’attivista. Oggi come un tempo, però, il nodo principale da sciogliere rimane la maternità.

«I costi degli asili sono molto alti e tante mamme si chiedono perché lavorare se tutto il loro stipendio serve per pagare le rette del nido». La risposta è molto semplice: perché oltre alla “mesata”, il datore di lavoro versa anche i contributi.

Continuare a lavorare è quindi un investimento che paga a lungo termine. Certo, rimane di fondo un problema di carattere culturale: «Il nostro appello agli uomini è quello di collaborare. Prendersi un congedo parentale non è affatto un disonore».

Mentre per le donne il messaggio è quello di «non mollare. Tenere duro al lavoro è anche una forma di rispetto di sé». Oltre alla garanzia di una pensione più alta.

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