Ciao Scarpa. Ti cercheremo nel silenzio dello Stelvio

L’editoriale di Francesco Caielli

Sapere che in gruppo c’era ancora Scarponi rappresentava una sorta di assicurazione sulla passione. Significava che il ciclismo vero – quello che piace a noi, lo sport più bello e insieme più pulito del mondo – era ancora vivo. Scarponi correva come un uomo, non come un robot costruito in laboratorio: sapeva sbagliare e chiedere scusa, sapeva cadere e risollevarsi, sapeva far fatica e ridere, sapeva vincere e perdere. Ecco perché la gente gli voleva bene, i giornalisti lo chiamavano, le telecamere lo cercavano. Se aveva vinto lui, non aveva vinto Basso: per questo non siamo mai stati davvero suoi tifosi. Però il ciclismo, oltre ad altre mille cose, ci ha insegnato anche a voler bene alla fatica di tutti. E Scarponi era uno che con la fatica faceva palpitare il cuore: amava la montagna, e sulle salite del Giro ha scritto le sue storie più belle.

Certo, ora bisognerebbe scrivere che ci manca e soprattutto che mancherà al ciclismo oppure bisognerebbe far silenzio. Di fronte a due bambini che fino a qualche ora fa giocavano col loro papà e che ora non lo vedranno mai più, di fronte a una moglie che l’ha salutato con un bacio e un attimo dopo l’ha visto morire.

Non abbiamo la presunzione di sapere dove si va, quando si muore. Sappiamo cosa succede quando a salutarci è un ciclista, uno di noi. Sappiamo che resta, in qualche modo: nei silenzi, in cima allo Stelvio, sui tornanti infami del Mortirolo, nell’aria leggera del Gavia. Sappiamo dove andarlo a trovare: proveremo a farcelo bastare.