Sapere che in gruppo c’era ancora Scarponi rappresentava una sorta di assicurazione sulla passione. Significava che il ciclismo vero – quello che piace a noi, lo sport più bello e insieme più pulito del mondo – era ancora vivo. Scarponi correva come un uomo, non come un robot costruito in laboratorio: sapeva sbagliare e chiedere scusa, sapeva cadere e risollevarsi, sapeva far fatica e ridere, sapeva vincere e perdere. Ecco perché la gente gli voleva bene, i giornalisti lo chiamavano, le telecamere lo cercavano. Se aveva vinto lui, non aveva vinto Basso: per questo non siamo mai stati davvero suoi tifosi. Però il ciclismo, oltre ad altre mille cose, ci ha insegnato anche a voler bene alla fatica di tutti. E Scarponi era uno che con la fatica faceva palpitare il cuore: amava la montagna, e sulle salite del Giro ha scritto le sue storie più belle.
Certo, ora bisognerebbe scrivere che ci manca e soprattutto che mancherà al ciclismo oppure bisognerebbe far silenzio. Di fronte a due bambini che fino a qualche ora fa giocavano col loro papà e che ora non lo vedranno mai più, di fronte a una moglie che l’ha salutato con un bacio e un attimo dopo l’ha visto morire.
Non abbiamo la presunzione di sapere dove si va, quando si muore. Sappiamo cosa succede quando a salutarci è un ciclista, uno di noi. Sappiamo che resta, in qualche modo: nei silenzi, in cima allo Stelvio, sui tornanti infami del Mortirolo, nell’aria leggera del Gavia. Sappiamo dove andarlo a trovare: proveremo a farcelo bastare.