Ricordiamo Mara gridando forte che chi uccide resta un assassino

Tamara, ma tutti la chiamavano Mara, era una ragazza tutto fuorché banale: bella da perderci la testa, innamorata del suo lavoro e dei suoi delfini. La sera del 2 febbraio di dieci anni fa un pazzo (che ha un nome e un cognome: Alessandro Doto) l’ha uccisa con venticinque coltellate. Nessun movente, nessuna motivazione, nessuna ragione se non la follia di quell’uomo che ha strappato il sorriso di Mara a tutti quelli che le volevano bene. A suo cugino Livio, per esempio: che con Mara era cresciuto e per lui era come una sorella. Che da tanti anni lancia il suo grido inascoltato.

Il suo grido contro l’ingiustizia di uno Stato che si preoccupa troppo di difendere gli assassini e si dimentica subito delle vittime. Il suo grido contro il paradosso di chi si impegna a favore dei diritti dei carcerati ma non fa nulla per difendere chi, per colpa dei carcerati, ha sofferto e ha vissuto il più atroce dei dolori. Il suo grido contro l’ipocrisia di un sistema giudiziario che dispensa pene senza essere in grado di farle scontare,

che ordina risarcimenti che sanno di presa in giro (lo sapete che ai genitori di Mara hanno chiesto di pagare il deposito della sentenza anche per il suo assassino perchè lui non aveva i soldi?).
E allora, ricordiamocelo: anzi, gridiamo con Livio. Chi uccide è un assassino, chi viene ucciso è una vittima.
Non è una banalità, in giorni nei quali pure la cronaca e l’attualità ci portano a fare confusione: perché non c’è mai un motivo abbastanza forte (non la pazzia, non il desiderio di vendetta per chi a un incrocio ha ammazzato nostra moglie) per pensare di avere pietà per chi uccide.