«La bici è genuina regala mille storie»

L’intervista a Marco Pastonesi: giornalista, cantore di ciclismo e rugby

Marco Pastonesi è un cantore delle due ruote, un giornalista che ha contrappuntato il ciclismo con le storie, anche incredibili, di personaggi di seconda fila e non solo, punteggiate da quelle dei protagonisti. L’immediato esigeva la cronaca, ma la sua era romanzo. «È sempre stato raccontato, il ciclismo: quando non esisteva la televisione i grandi giornali mandavano al seguito del Giro o del Tour i cronisti con i grandi scrittori, come Montanelli, Buzzati e Pratolini. E anche gli stessi cronisti andavano oltre la cronaca: penso a Mario Fossati, a Gianni Brera, oggi potremmo dirlo di Gianni Mura».

È lo sport più letterario, perché ogni corridore si porta appresso una storia. E non è circoscritto dentro uno stadio, ma è sulle strade, e lì non manca mai l’ispirazione. Le racconto questa: la scorsa settimana ero a Peccioli per una corsa, da una finestra spunta una suora, la indico alla mia fotografa, ma lei si ritira. Che peccato, dico. Invece ricompare dopo un minuto, ha in mano un cellulare e comincia a fotografare. Stupendo. Di tecnologico vi è stata l’evoluzione delle biciclette.

Il ciclismo ha saputo lottare profondamente contro il doping, anche se ancora si è severi nei suoi confronti. Quando si parla di un corridore che ha vinto, che ne so, di Scarponi, si dice sempre che ha avuto una squalifica per doping, mentre di qualche calciatore che oggi allena ad altissimi livelli ed aveva 60 di ematocrito non si dice nulla.

Direi bene. Abbiamo fatto un secondo posto al Giro con Aru, un quarto al Tour con Nibali, un primo alla Vuelta ancora con Aru, e poi siamo tornati a vincere una classica come il Lombardia con Nibali. Ma siamo andati bene anche nelle mezze classiche, come la Parigi-Tours con Trentin.

Teniamo presente che si è ampliata la platea delle nazioni che sono diventate competitive. Penso alla Polonia, alla Gran Bretagna, al Sudafrica, pure all’Eritrea. Lo spazio si è ridotto, anche se mi risulta difficile comprendere come questa attenzione per la bicicletta in Italia non produca i suoi effetti. Assistiamo invece a società che chiudono, e gli sponsor sono sempre gli stessi. I genitori ritengono forse pericoloso che i loro ragazzi debbano allenarsi sulle strade. O forse occorre avere solo pazienza e questa attenzione alla bici si trasformerà in passione, in agonismo.

Lì è uno sport amatissimo e l’ho potuto verificare di persona. È ancora primitivo, ricorda il nostro ciclismo di cent’anni fa. Se fori sei rovinato, si dorme nelle tende. E mi hanno raccontato che al Giro del Ruanda, in certe tappe, sapevi la località di partenza, ma non quella di arrivo. Adesso però l’organizzazione è migliorata.

Mi hanno sempre affascinato i gregari, forse perché sono i più puri, i più genuini. Penso a Renzo Zanazzi, che è stato gregario di Coppi e Bartali: ho scritto un libro su di lui, “Diavolo di un corridore”. A Meo Venturelli, un corridore che aveva numeri, ma anche una vita alquanto avventurosa. A Marzio Bruseghin e Alan Marangoni. Sì, si possono avere amici nel ciclismo.

Neanch’io lo saprei. Forse perché nel ciclismo, come nel rugby, da parte delle gente vi è una passione oggettiva. Certo, se gioca l’Italia faccio il tifo: ma per il resto, quando sono in uno stadio del rugby provo la stessa gioia di quando mi trovo su una strada.