I classici vogliono essere traditi

Il cartellone dell’Openjobmetis sta dando l’occasione ai varesini si confrontarsi con grandi opere

In questa stagione 2016-2017 il cartellone di “Prosa classica” del Teatro Openjobmetis sta offrendo ai varesini l’occasione di confrontarsi con alcuni grandi classici della drammaturgia mondiale, nonché con alcuni maestri dell’arte attoriale di questo paese.

Questa fortunata proposta del direttore De Sanctis dimostra quanto sia vivo, anche nei giovani, l’interesse verso il canone della letteratura teatrale, inoltre ci fornisce lo spunto per qualche riflessione sul modo più opportuno di avvicinarsi a questo fondamentale patrimonio culturale. L’occasione più propizia ci è data dalla recente rappresentazione di “Il giuoco delle parti” di Pirandello prodotta dalla Compagnia Umberto Orsini.

L’attore novarese si è già confrontato circa 20 anni fa con il medesimo testo (per la regia di Gabriele Lavia nel 1995) e lo stesso Orsini ha dichiarato di aver sentito l’esigenza di una nuova chiave interpretativa. Il testo, che appartiene al filone della commedia borghese, prende spunto da una situazione oggi comune, ma all’epoca (1918) quasi scandalosa: una coppia, Leone e Silia, è separata, ma tenta di salvaguardare l’immagine pubblica trascorrendo insieme mezz’ora al giorno sotto lo stesso tetto. Il dramma si sviluppa intorno al tema consueto del rapporto tra apparenza e realtà e, procedendo con rigoroso meccanismo drammaturgico ad orologeria, giunge al suo esito fatale con la morte dell’amante di Silia, Guido.

Proporre al pubblico un classico impone uno sforzo ermeneutico cui un grande interprete non si sottrae. In fondo se riteniamo che i classici abbiano ancora qualcosa da dire al pubblico è sia per il valore intrinseco della grande letteratura sia per il coraggio dei suoi interpreti che osano dialogare con i maestri del passato. Sarebbe troppo semplicistico spiegare l’attuale tendenza a forzare i testi originali e le indicazioni registiche in essi presenti con mere questioni di contenimento dei tempi scenici, di ridimensionamento dei cast e delle scenografie, ovvero di sfoggio di moderne soluzioni scenotecniche (pur se talvolta queste sono le motivazioni effettive). Certo le produzioni filologiche possiedono un proprio inesauribile valore, ma si impone anche l’esigenza di accogliere gli stimoli provenienti dai classici per interrogare il presente.

La compagnia di Orsini, con la regia di Roberto Valerio, ha scelto di indagare la sicumera di Leone, il quale, atteggiandosi a filosofo imperturbabile, è convinto che “per ristabilire l’equilibrio” sia sufficiente “trovare il pernio di un concetto per fissarsi”.

La pretesa del protagonista del dramma è smascherata dall’originale stesura del dramma pirandelliano, laddove, poco prima della chiusura del sipario, il cameriere Filippo serve la colazione a Leone, ma questi come impietrito e alienato rimane immobile e silente.

Da qui Orsini suggerisce il seguito del dramma, con l’inesorabile psicosi che avrebbe travolto Leone dopo la morte del “rivale” Guido. Pertanto sul palco “Il giuoco delle parti” si presenta agli occhi dello spettatore come fosse evocato dalla mente di un Leone ormai vecchio e malato, ricoverato in un gelido ospedale psichiatrico tra le mura del quale il dramma prende forma senza mai consumarsi definitivamente. È qui che la regia trae la propria giustificazione, pur nel tradimento della drammaturgia originaria; è il gioco grottesco delle parti a generare questa infinita e ossessiva ripetizione del cinico complotto ordito da Leone. Forse non è un caso che lo stesso Pirandello decise di iniziare il suo celebre “Sei personaggi in cerca d’autore” con una compagnia di attori intenta a provare proprio questo dramma.

Forse “Il giuoco delle parti” è un fantasma destinato a comparire in eterno sulle assi del palcoscenico, chimera lasciata da Pirandello in eredità a tutto il teatro che gli sarebbe succeduto, simbolo del tarlo grottesco che il grande drammaturgo siciliano ha inteso inserire nella coscienza dell’uomo contemporaneo. Dopo di lui chi vorrà ancora elevarsi superomisticamente su questa società “squacquerata” come l’uovo di cui parla il protagonista? Nessun pernio basato sulla sicumera di un razionalismo cinico impedirà a quell’uovo di sorprenderti; e quell’uovo sempre “ti si squacquererà davanti o addosso”. Forse è questo il vero compito dei classici: continuare a pararcisi di fronte e costringerci a tradirli ancora per ricordarci che il “pernio” non si può trovare una volta per tutte.