La più nota era situata in via Bainsizza, esattamente nello stabile che oggi ospita il ristorante-pizzeria “Il piatto d’oro”. Era la casa di tolleranza frequentata dal “popolo” varesino, perché quella dedicata agli ometti d’alto borgo si trovava in una villa in via De Cristoforis.
Stiamo parlando della Varese fine anni ’50, per la precisione della città giardino così come si presentava fino a quel 20 febbraio 1958. Data in cui il Parlamento italiano abolì le case chiuse approvando la legge 75/58 promossa dalla senatrice socialista Angelina Merlin.
Quest’ultima non voleva abolire “il mestiere più vecchio del mondo, che morirà con il mondo“, ma solo cancellare lo sfruttamento del meretricio da parte dello Stato, che andava, tra l’altro, contro le disposizioni dell’Onu che dal 1949 impegnavano gli Stati membri a punire chi traeva guadagno dalla prostituzione altrui.
Si concluse, così, un’epoca la cui unità di misura era, appunto, la ‘marchetta’, un gettone in ottone forato al centro che sul dorso recava inciso il nome della Casa (ma poteva ridursi anche a un semplice talloncino di carta) e che, una volta acquistato dal cliente, veniva consegnato in camera alla ragazza prima della “consumazione”.
Ora il Carroccio intende riaprire i vecchi bordelli e ha proposto al Pirellone un referendum per l’abrogazione parziale della legge Merlin.
Così, il nostro viaggio si concentra proprio sulla Varese degli anni a cavallo dell’entrata in vigore della legge Merlin, quando la “tolleranza” costava cinque lire e quando l’odore di talco si mischiava all’odore di lisoformio, dei sudori e dei fiati che facevano da padroni nelle case del piacere.
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