Per il bene di Varese è necessario dirsi addio

Il commento di Fabio Gandini

Esiste un bene ultimo in tutta questa storia. E si chiama Pallacanestro Varese. Sgombriamo subito il campo dalla retorica: sono i fatti a parlare. Perdere 16 volte su 23 uscite non è sintomatologia, è malattia. Conclamata, da curare prima che diventi morte (e tutti sanno cosa si intenda per morte, concetto forse troppo forte ma che fa gioco, nello sport). Da curare con ogni mezzo a disposizione, appurato il fallimento di ogni altra strada, compresa la pazienza.

Perdere 16 volte su 23 uscite e non esonerare l’allenatore responsabile della squadra che quelle partite le ha perse non è un merito, non è un cimelio naif per reclamare la propria diversità dal resto di un mondo dello sport che non possiede né memoria, né riconoscenza, né spesso coerenza. È (sarebbe) semplicemente un’incoscienza colossale. Paolo Moretti ci ha provato e non c’è riuscito. Come qualsiasi uomo che ogni giorno si alza dal suo giaciglio notturno e affronta la vita, ricevendo alternativamente pugni o carezze. Varese, questa Varese, per lui è stata un pugno: nel suo futuro professionale gli auguriamo tutte le carezze possibili. Ma prima che sia lui ad essere un pugno, da k.o, per Varese, è arrivato il momento di cambiare.

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