Tra neve e gelo spuntano gli eroi

Pedalare, pedalare forte, con lo sguardo annebbiato dalla fatica e dalle raffiche di neve, con il vento gelido che sembra tagliarti la faccia. Ci sono giornate in cui i ciclisti devono superare se stessi, gli avversari, lo sforzo della salita, le intemperie. Pedalare contro vento e col cuore in gola. Come ieri, sedicesima tappa del Giro d’Italia, da Ponte di Legno a Val Martello: per la prima volta nella storia della corsa rosa i ciclisti hanno dovuto affrontare prima il Gavia, poi lo Stelvio. E poi ancora 22 km di salita, con pendenze fino al 14%, per giungere all’arrivo.

Il primo a tagliare il traguardo è stato il colombiano Nairo Quintana, che ha strappato così la maglia rosa dalle spalle del connazionale Rigoberto Uran, giunto all’arrivo con 4’11 di distacco.

Non senza accese polemiche, dovute alla diversa interpretazione che le ammiraglie hanno dato a un messaggio diramato da radio corsa: la presenza delle moto con bandiera rossa (messe lì per segnalare la presenza di curve particolarmente pericolose) è stata da diversi direttori sportivi interpretata come l’avviso di neutralizzazione della discesa dallo Stelvio. Così, mentre Uran e altri inseguitori se la prendevano comoda, Quintana e gli altri fuggitivi attaccavano, guadagnando terreno. Ma questa tappa non sarà certo ricordata solo per questo (comunque clamoroso) malinteso.

Altre immagini resteranno nella memoria, indelebili. Come l’arrivo solitario di Dario Cataldo sulla Cima Coppi, in vetta allo Stelvio, 2.758 metri d’altezza. Il corridore abruzzese, portacolori del Team Sky, ha coronato con questo traguardo prestigioso un allungo indimenticabile, prima di essere ripreso dagli inseguitori durante la discesa. Commovente, eroico, il passaggio dei corridori sullo Stelvio. Stremati, congelati, ma indomiti, i ciclisti hanno pedalato in salita ripidissima sotto una bufera di neve, con temperature vicine ai cinque gradi sotto zero: immagini che rimandano a un ciclismo epico d’altri tempi. Ma lo sforzo, il sacrificio, la fatica dei ciclisti è senza tempo. È l’essenza di questo sport. Pedalare forte, nonostante tutto, perché se pedali forte, diceva Pantani, si abbrevia l’agonia.

Sul Gavia e sullo Stelvio c’erano anche tanti tifosi, anche loro noncuranti del maltempo, pronti a sgolarsi al passaggio dei ciclisti. Per incitarli, urlare loro di tenere duro, di resistere al gelo e alla fatica ormai quasi insopportabile. Indifferenti al freddo, i tifosi colombiani hanno incitato in bermuda i loro beniamini.

All’arrivo di Val Martello c’era anche Alessandro Giglio, varesino, tifosissimo di Ivan Basso. Alessandro ha incontrato Ivan lunedì sera a Ponte di Legno, per poi seguire la tappa il giorno successivo e vedere con i propri occhi che Basso «è ancora uno dei ciclisti più amati del Giro, quello che viene maggiormente preso d’assalto per foto e autografi».

Ha fatto fatica Ivan, ma ha resistito a tutte le avversità ed è arrivato al traguardo (a 17’16’’ da Quintana). Anche gli altri due varesini sono arrivati a Val Martello: Eugenio Alafaci (39’33’’) e Ivan Santaromita (44’07’’). Distanti, certo, ma anche loro straordinari, come tutti quelli che hanno messo cuore, anima e muscoli per portare a termine la tappa. Una delle più faticose di sempre. Bastava sentire il flebile filo di voce uscito dalla bocca di Fabio Aru dopo l’arrivo, durante le interviste. Corridori stremati, trasfigurati dallo sforzo, ma già pronti a rimettersi in sella per affrontare altre sfide, altre imprese. Perché il ciclismo è questo. Non ci si ferma mai, e dopo una discesa c’è un’altra salita da scalare. Anche se c’è vento, anche se scende la neve.

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