Matteo Della Bordella: «La paura mi spinge in cima»

«…Immaginate una parete alta tre volte la Tour Eiffel, con in cima un cappuccio di neve e ghiaccio di 50 metri, tipico delle montagne della Patagonia. Poi immaginate un picco posto a circa 45 chilometri dall’ultimo avamposto di civiltà. Ecco la ovest della Torre Egger. Fino a tre anni e mezzo fa la era l’ultima parete rimasta inviolata in Patagonia: noi siamo partiti con l’ambizioso progetto di scalarla, senza tuttavia aver davvero presente ciò a cui andavamo incontro. E ci abbiamo sbattuto la testa, tante volte: tre tentativi, tre spedizioni, 150 giorni in totale passati sopra di lei e sotto di lei, accampati sul ghiacciaio nel quale avevamo scavato una “truna” per ripararci dall’intemperanza del vento, aspettando una finestra di bel tempo…».

Ecco, ora immaginate la felicità. Oppure immaginate una molla, una molla che preme contro la vostra schiena mentre siete coricati sul letto, spingendovi in piedi ad ogni sorgere del sole, un po’ ragione di vita, un po’ passione, un po’ habitat naturale fatto di verticalità e perfezione difficilmente scalfibili.

Siete arrivati a Matteo Della Bordella, 32 anni, varesino, uno degli alpinisti più famosi d’Italia, se non fosse che le luci della ribalta difficilmente si accendono su chi fa quello che lui ama fare. Estremo sud del mondo, Groenlandia, Pakistan, Canada (no, non quello da cartolina: Isola di Baffin, 72° parallelo), prima ancora le Alpi: la Città Giardino ha dato i natali a uno scalatore che si è mangiato rapidamente il gap tra promessa e realtà, entrando in un gotha (quello dei Ragni di Lecco) cui appartengono le colonne portanti dell’alpinismo italiano, da Walter Bonatti in giù. Nelle righe che seguono proveremo a conoscere questo fenomeno, miscelando il racconto di salite e spedizioni con gli spigoli di un’anima che sale, leggera, alle stesse altezze raggiunte dal corpo. Provvista di un elemento fondamentale: la paura.

Una ventina di anni fa, con mio padre: io volevo provare e questa ragione lo spinse ad accompagnarmi e a ricominciare quello che lui già aveva fatto in passato. Siamo partiti da vie facili, sulle Dolomiti e in Svizzera, percorse d’estate, una o due volte al mese, in modo assolutamente amatoriale. Fino a quando ho compiuto 16 anni è stato così: ero appassionato, ma non “preso” fino in fondo. Poi mi è scattata dentro una grande attrazione per le pareti di roccia delle Alpi: la Marmolada, il Civetta, il Monte Bianco. Allora ho iniziato ad allenarmi, a spingere sempre di più e, sempre accompagnato da mio padre, ho fatto delle salite bellissime.

Tra tutte il “Pesce”, sulla Marmolada, una via che all’inizio ci sembrava un traguardo irraggiungibile (1000 metri di parete ndr) e che poi abbiamo concluso in arrampicata libera in una sola giornata. Ciò mi ha permesso di farmi conoscere all’interno dell’ambiente e mi ha aperto le porte dei Ragni di Lecco, nel 2006, una tappa importantissima.

La proposta deve arrivare da tre membri del gruppo e prevede la presentazione del curriculum delle proprie salite. Sull’ammissione decide il voto dell’assemblea, che deve essere per 2/3 favorevole. Si tratta di entrare in un’associazione per forza di cose elitaria, che ha come obiettivo quello di promuovere l’alpinismo esplorativo in tutto il mondo. Io ci sono arrivato a 22 anni, ho conosciuto persone con cui ho legato e fatto tante spedizioni e ciò mi ha dato la possibilità di crescere.

No, anzi: per me è stato un punto di partenza, anche se è significato far parte di una storia fatta di nomi come Walter Bonatti, Casimiro Ferrari, Riccardo Cassin e tanti altri. Io non sono nemmeno di Lecco: il fatto che abbiano accettato un “forestiero” come me è suonato come un apprezzamento delle mie potenzialità .

La sfida che offre questo tipo di attività. Ti trovi sotto pareti che sembrano impossibile da scalare, poi ci provi e pian piano, dopo tanti sforzi, arrivi in cima. Si tratta di un tipo di sensazione che ho sempre ricercato, anche in altri ambiti della mia vita, ma solo con la montagna ho unito questa ricerca a un ambiente che mi ha sempre fatto sentire a mio agio.

Abbiamo provato a scalarla fin dal 2011 e in totale abbiamo passato 5 mesi ad affrontarla, vincendo la montagna solo nel febbraio 2013. In uno dei tentativi del 2012 ci è capitato un incidente che non ha avuto conseguenze gravi, anche se le avrebbe potute avere: io e il mio compagno siamo rimasti appesi a un “friend” (ad un solo punto di assicurazione ndr), con mille metri di parete sotto di noi.

È stata la ripetizione, dopo quarant’anni, di una via aperta da altri “Ragni” (Casimiro Ferrari e Vittorio Meles ndr) nel 1976. Perché decidere di ripeterla? Perché quando arrivi a Chalten, l’ultimo paesino della Patagonia prima delle montagne, ti trovi davanti questa parete che a mio parere è una della più belle che esistano: anche quando ero sulla Torre Egger, il desiderio di scalarla è sempre stato fortissimo. La salita dei “Ragni” rimaneva la più

bella e la più difficile sul Fitz Roy e non era mai stata ripetuta. È da questa considerazione che è nato il progetto di affrontarla, però in uno stile moderno, senza chiodi, senza scalette di metallo o corde fisse, bensì in stile alpino, quindi in un’unica soluzione, ripulendo la via stessa da tutto il materiale che era stato usato all’epoca e che era rimasto in parete, a marcire come spazzatura. Anche qui tre anni di tentativi, dal 2014 al 2016, poi il successo.

Dal primo giorno in cui ci ho messo piede ho capito che ci sarei tornato negli anni a venire. Ha le montagne più belle del mondo, tutte con pareti “pulite” e caratterizzate da guglie con il cappuccio di ghiaccio in cima. Lì ogni salita te la devi conquistare: lo spirito della sfida, lì, lo puoi vivere al massimo. Io ci ho messo sei anni per arrivare a compiere due salite, tre anni per ciascuna. Ed è proprio quello che cerco.

L’idea di cimentarsi con quelle montagne in sé mi piacerebbe anche, però ci sono dei contro. Io prediligo le pareti di roccia e sugli 8000 non c’è la possibilità di scalare su quel terreno, sia per la quota che per il freddo. E poi quello che mi lascia perplesso degli 8000 è l’affollamento di persone che tentano di scalarli: a me, in una spedizione, piace cavarmela da solo. Una volta ciò che spingeva l’animo degli alpinisti era lo spirito di conquista: come salivi, salivi, contava il risultato. È un concetto che non ha più senso, oggi, perché di montagne da conquistare non ce ne sono praticamente più. Quello che conta è allora lo stile, è come scali. E per me conta uno stile pulito, uno stile che non lasci tracce del tuo passaggio e che non ti costringa a utilizzare corde fisse in parete.

Una spedizione “by fair means”, ovvero in totale autonomia e senza mezzi motorizzati. Siamo partiti da un paesino sulla costa est dell’isola, abbiamo fatto più di 200 chilometri con il kayak, poi 25 a piedi e poi scalato quella parete che misura circa 900 metri di dislivello. Uno degli aspetti traumatici della spedizione è stato il viaggio con i kayak, sul quale ero salito per la prima volta solo pochi mesi prima a Lavena.È stata l’occasione per contare solo sulle mie forze.

No. Mi piace condividere quello che faccio con altre persone: se sono da solo mi manca qualcosa, ho meno stimoli. La montagna è anche amicizia: ormai ho dei compagni su cui so di poter contare, ed avere fiducia è un aspetto indispensabile quando ti trovi lontano da casa per mesi e in condizioni particolari.

No. E se c’è, è la prossima da scalare. Due delle montagne che ho amato? Lo Shark Tooth e la Torre Egger.

La Marmolada. Non è perfetta, ma è la mia preferita.

Prendo spunto dalla mia vita o cerco qualcosa che mi abbia colpito. “Non è un paese per vecchi”, in Ticino, trova ispirazione nel film, che mi era piaciuto, e poi nel fatto che quella era una via che quando sei vecchio – e hai un po’ di sale in zucca – non faresti mai.

Ancora in Patagonia, al Cerro Murallon. Partiremo tra un mese, con David Bacci, anche lui di Varese, e Matteo Bernasconi, che è stato il mio socio alla Torre Egger. Apriremo una via o tenteremo almeno di ripetere quella aperta dai Ragni nel 1984 e mai più ripetuta. Si tratta di una montagna remota e poco conosciuta: una spedizione impegnativa, come ingaggio e logistica.

L’incidente di mio padre mi ha costretto a pormi delle domande. Mi sono chiesto se valesse davvero la pena fare un’attività del genere di fronte a un rischio così elevato. La risposta è stata che per me scalare in montagna è un qualcosa di talmente importante da essere disposto ad accettare anche un rischio di questo tipo, in piena consapevolezza. L’alpinismo è la mia vita, la direzione che volevo prendere. E così sono andato avanti.

La paura è qualcosa di normale, qualcosa che dovrai provare sempre. La chiave è saperla controllare e non farsi prendere dal panico, perché ciò ti potrebbe portare a prendere decisioni sbagliate. Al contrario, adeguatamente controllata, la paura ti fa fare le scelte giuste: è grazie ad essa che a volte scegli di rinunciare.

– Per fortuna che siamo nati qui, non credi Oliviero? – Il commento di Francesco Caielli


– «È una passionaccia antica che arriva dai nostri padri. Siamo un gruppo di amici»



– Giornata della Montagna. «I nostri monti»




La montagna mi ha insegnato tutto. Io adesso voglio regalarla ai giovani- L’editoriale di Marco Confortola