Dopo una stagione d’acqua nelle vene, a parte qualche fiammata del buon Castori (noi crediamo che il giudizio finale di chi passa da Varese debba essere basato sull’uomo, e lui era un uomo vero), Stefano Sottili inietta fuoco.
La battuta con cui risponde ai pensionati che lo accolgono allo stadio («L’ultimo che ha fatto un allenamento lasciando fuori tutti è durato sette partite»), non è solo una battuta: «Allora io a porte chiuse ne faccio due».
Non è questione di credere nelle porte chiuse: noi non ci crediamo perché il calcio non è una guerra fredda fatta di spie e sospetti, perché il Varese è una casa di vetro abitata prima dai tifosi e poi dagli allenatori o dai dirigenti di turno, e perché dalla Seconda divisione alla finale per la A ci siamo arrivati con lo spirito degli uomini, non con uno schema o un modulo in più; lui invece ci crede perché
le partite nel 2013 si vincono o si perdono per un dettaglio (un movimento, un angolo, un azzardo) che gli altri non si aspettano, per una novità in formazione (se gioca un piccoletto come Forte o un gladiatore come Bjelanovic, a Bisoli del Cesena cambia la vita). O ancora perché – come dice il tecnico con una bischerata molto da Varese, in questo ricordando quelle del suo predecessore, «io in ogni partita mi gioco il c., voi un po’ meno».
Sfaccettature che svaniscono di fronte al risultato che quest’estremismo sfacciato e il passo da generale di questo mister (più Pantani che Sannino, a guardarlo bene) ha provocato nell’ambiente. Dopo una stagione di regole a volte calpestate dall’anarchia, di rifiniture come quella decisiva prima del Brescia in cui a bordo campo mancava solo il gelataio, o di un allenatore che, dando un dito ai giocatori, vedeva portarsi via la mano. ben venga il pugno di ferro. Se non era chiaro a tutti chi comandava in campo, e da questa confusione nacquero equivoci, rilassatezze e insubordinazioni come quella di Vercelli, ora lo è. I guerrieri della notte non esistono più perché, al loro posto, di giorno e di notte, c’è sempre il sole che arriva ovunque e vede tutto, e questo sole è Sottili.
Alla fine conta solo il campo ma le fortune-sfortune della squadra, come s’è visto con Sannino o Maran e poi con Castori, nascono o muoiono fuori, e qui siamo a posto perché le facce, le parole e i fatti che le seguono sono quelli giusti. E se Laurenza rievoca il mitico sanniniano “è tutto scritto”, Sottili invece è pronto a tutto: «Se aspettiamo che qualcosa ci cada in testa dal cielo, becchiamo una cacca di piccione sulla zucca. Dobbiamo andare a prenderci quello che vogliamo». Anche se non lo dice, lui stasera vuole qualcosa e ha in mente come prenderselo.
«Possiamo accettare di non vincere solo dopo avere lasciato sul campo l’ultimo respiro, o perché ci hanno schiacciato per 90 minuti sulla linea di porta». Manca Pavoletti, manca Blasi, manca Zecchin, manca Momenté, manca Barberis, embeh? Il Varese non è mai morto per le assenze (anzi, è più Forte con poche forze) o perché in quindicimila gli urlano addosso Romagna mia dall’inizio alla fine. Il Varese è fatto di scosse, avventure, sorprese. È un piccolo tuono improvviso nel cielo stellato del Cesena.
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